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lunedì 21 settembre 2009

DIRITTO COMUNE


IL PROCESSO CIVILE ROMANO-CANONICO
PREMESSA
L’epoca comunale, dal tardo XII secolo, segna un cambiamento radicale nel processo civile come in quello criminale: con la nascita dei comuni si rinnova infatti, assieme al diritto sostanziale, anche la prassi processuale per realizzare nelle nuove realtà cittadine la migliore giustizia nell’interesse sia sociale che privato.
La rinascita della procedura inizia in Italia con la riscoperta del diritto romano nelle scuole e corrisponde alle esigenze della nuova economia monetaria che si afferma sempre più vigorosamente nel corso del Duecento. Fino a tutto il XII secolo nei tribunali venivano infatti portate quasi esclusivamente controversie relative a possedimenti terrieri, le quali si potevano facilmente risolvere con quel rapido procedimento orale introdotto in Italia dall’età dei regni germanici: agli interessi fondiari bastava infatti quella procedura semplice fondata su prove ordaliche. All’epoca dei Comuni, invece, col crescere e il predominare di un’economia risultante dai traffici commerciali e da attività di tipo industriale, si intensificò il diritto delle obbligazioni che doveva trovare il suo logico completamento in un procedimento più perfezionato di quello utilizzato nei tribunali feudali che avevano ereditato l’antica procedura germanica. Tale nuovo sistema procedurale venne così attinto da quello che Giustiniano aveva fissato nelle sue leggi. Questo diritto processuale di origine romanistica, insegnato nelle scuole, non tardò così ad essere proposto dai dottori anche per la pratica forense, e quindi ad imporsi nei tribunali cittadini, attuato da consoli e podestà. Il procedimento romano non era del resto del tutto tramontato nell’alto medioevo, poiché l’avevano conservato soprattutto i tribunali ecclesiastici.
Dal procedimento romano venne attinta la parte ancora viva ed utilizzabile, tralasciandosi le esteriorità formali incompatibili con le nuove tendenze sociali e le nuove esigenze spirituali portate innanzi dalla Chiesa.
Mentre il processo altomedievale era pubblico, orale e fondato sulle prove ordaliche, il processo romano-canonico era interamente permeato dalla scrittura: si apriva con la libelli oblatio, cioè con la comunicazione scritta del libello introduttivo della lite (contenente la pretesa dell’attore) alla controparte, proseguiva con la litis contestatio con cui attore e convenuto ribadivano, a voce e per iscritto, le loro posizioni manifestando il loro animus litigandi, cioè la loro volontà di procedere nella causa; le prove erano testimoniali e documentali e il loro valore era previamente deciso per legge; la sentenza non era sulla prova, come nel processo germanico in cui la decisione finale si limitava ad accertare il vincitore della prova ordalica, ma si pronunciava sul fondamento della pretesa dell’attore, e doveva essere impugnata subito altrimenti passava in giudicato per dare rapidamente certezza e stabilità alle situazioni giuridiche dei soggetti. Il forte tecnicismo e l’uso abbondante della scrittura comportavano inevitabilmente una dilatazione dei tempi del processo, ma ciò fu determinato dalla volontà di realizzare la migliore giustizia e di non lasciare nulla all’arbitrio del giudice; all’eccessiva durata dei processi si cercò comunque di ovviare attraverso l’introduzione del rito sommario, anch’esso di origine prettamente canonistica.
A questo rito giudiziario spetta veramente la denominazione di processo romano-canonico: romano per la terminologia e per l’utilizzo dei concetti fondamentali del processo romano desunti dal diritto giustinianeo a partire dal XII secolo; canonico per le notevoli innovazioni introdotte dalla legislazione pontificia e per lo spirito di buona fede e di equità di cui il diritto canonico lo permeò. La Chiesa fece di questo processo elaborato sia dai canonisti che dai civilisti il processo cattolico per eccellenza, praticato in tutte le aule giudiziarie dell’Europa cristiana.
Tra i numerosi civilisti e canonisti che si dedicarono all’elaborazione del nuovo rito procedurale vanno ricordati Giovanni Bassiano col suo "Arbor actionum" e la sua summa "Quicunque vult", della metà del XII secolo, opere entrambe dedicate ai libelli introduttivi delle liti; vengono poi le summae di Bernardo Dorna e Roffredo da Benevento, degli inizi del 200, e soprattutto il "Libellus Disputatorius" di Pillio da Medicina; il processo canonico ebbe anche le trattazioni duecentesche di Damaso, di Tancredi, di Grazia Aretino, di Giovanni di Dio, oltre alle numerose opere rimaste anonime. Tutta questa letteratura fu poi sopravanzata dallo "Speculum iudiciale" di Guglielmo Durante, degli anni 70-80 del 200, in cui si trova esposto tutto il processo civile e penale, opera di grandissimo successo che vanta ben 40 edizioni, l’ultima lionese del 1690.
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Come Accursio aveva riassunto i risultati della scuola civilistica dei glossatori, così fece Guglielmo Durante per la materia processuale, fissandone tutte le regole fondamentali.
La stessa espressione processus, non utilizzata in un’accezione tecnica presso i romani, lo divenne per opera del diritto canonico che usò i termini processus e procedere nel senso di agire, specialmente da parte del giudice, indicandosi così quel complesso di atti procedurali che i romani chiamavano piuttosto iudicium. All’espressione iudicium restarono comunque fedeli i civilisti, che l'affiancarono al termine processus e che intitolarono infatti "de ordine iudiciario" i primi trattati dedicati al rito procedurale.
L’introduzione della scrittura contribuì indubbiamente a rendere un po’ artificiosa la procedura e a prolungare la durata delle liti giudiziarie, ma allo stesso tempo il giudizio guadagnò in certezza: veniva precisato il campo della cognizione riservato al giudice, imponendogli le regola dello "stare agli atti" presentati dalle parti, perché, si diceva con enfasi, "quod non est in actis et non est in scriptis, non est de hoc mundo" (cioè non esiste).
Tale trasformazione attuatasi lentamente fu il prodotto di diversi fattori: una mentalità predominante ancora semplice e amante del solenne, l’abitudine delle genti medievali di rivestire ogni cosa con apparenze sensibili ed esteriori, pratiche tradizionali ereditate dal mondo barbarico ed altre introdotte da consuetudini consolidate. Un forte incremento al formalismo procedurale venne dato dalla Chiesa con la sua consueta preoccupazione per la fragilità umana e di conseguenza con la sua sospettosa diffidenza verso i giudicanti, inevitabilmente portati a commettere errori, una preoccupazione così acuta da sottoporre ogni libertà di apprezzamento e di valutazione dei fatti da parte dei giudici a regole precise ed ogni momento procedurale ad un rigoroso cerimoniale, nella fiducia che l’osservanza di tutte quelle forme dovesse condurre più facilmente all’accertamento della verità materiale.
La pretesa della Chiesa di disciplinare tutti gli atti umani e la piena fiducia nell’autorità del legislatore indussero a ritenere che quanto era fuori dalle regole fosse il prodotto di un pericoloso arbitrio e di un impulso passionale ed emotivo e che quello che noi modernamente chiamiamo intimo convincimento fosse qualcosa di fallace e ingannevole. Sotto questo principio rientrava il sistema delle prove legali, in cui il cui valore delle singole prove era rigorosamente e meticolosamente prestabilito per legge: ad esempio la deposizione concorde di due o più testimoni costituiva prova piena, mentre quella di un solo teste era prova semipiena da completarsi di necessità con altri mezzi di prova.
Anche comunque con questi difetti il procedimento canonico migliorò indubbiamente gli istituti procedurali romani nei quali le parti si trovavano in una situazione di forte passività davanti al giudice che indagava, dirigeva e prescriveva quello che dovevano fare e non fare, escluse da ogni collaborazione di fronte al giudice che era investito dei più estesi poteri di cognizione.
Nel processo romano-canonico alle parti veniva invece lasciata la libertà più ampia: l’intera materia della cognizione giudiziaria e l’intero contenuto del processo dipendevano da ciò che era al giudice presentato dai litiganti. Secondo un principio canonistico risalente a S. Ambrogio "Bonus iudex nihil ex arbitrio suo facit… sicut audit ita iudicat"; in sostanza la convinzione del giudice doveva formarsi sopra fatti chiari e manifesti dedotti dalle parti, con esclusione del suo arbitrio. Su questa linea si arrivava ad estromettere la conoscenza personale, lo "scire per se" del giudice: ciò che egli sapeva per conoscenza personale non lo autorizzava a decidere; occorrevano prove idonee presentate dalle parti, poiché la personale scienza del giudice poteva essere anche il frutto di autosuggestione.
Tutta la procedura romano-canonica era dunque dominata dal principio di circondare di cautele l’attività del giudicante, vincolandolo a tante formalità e rendendo impossibile il "iudicare secundum coscientiam". La sentenza stessa doveva riassumere meticolosamente tutte le varie fasi procedurali: la pretesa dell’attore, le prove, le deduzioni e le controdeduzioni, in modo che fosse chiaro che nessuna impressione soggettiva avesse influenzato il giudicante. Il giudice doveva giudicare "secundum allegata et provata", secondo cioè i fatti dedotti e provati dalle parti, vale a dire secondo la conoscenza dei fatti che aveva come giudice e non come uomo; solo il papa e l’imperatore, cioè le supreme autorità politiche, erano ammessi dalla dottrina processualistica a giudicare secondo coscienza, in quanto titolari, oltre che del potere di giudicare, anche di quello di legiferare.
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Pur con questi limiti, nell’avvicinamento tra la procedura romana e quella canonica, che avvenne nei tribunali italiani, la procedura realizzò comunque un indubbio progresso e trasmise ai tempi moderni quegli insegnamenti preziosi che il codice francese di procedura civle (1806) per primo raccolse.
L'ORDINAMENTO GIUDIZIARIO
Le vicende relative all’amministrazione della giustizia nei secoli XII e XIII sono collegate alla nascita del comune, ovvero alla fine dei poteri dei vescovi-conti (conti: titolari del potere di governo nelle contee in cui era ripartito l’impero carolingio e post-carolingio, spesso la carica era assegnata ai vescovi), titolari dell’amministrazione della giustizia nell’altomedioevo, imposta dagli avvenimenti politici e dai nuovi ideali di libertà e di indipendenza cittadina.
Il tribunale consolare, una volta sorto, legalmente o abusivamente, funzionò sempre, benché non mancarono i tentativi dei vescovi-conti di accordarsi coi consoli per spartirsi le funzioni giudiziarie, anche dopo che la Pace di Costanza (1183) aveva riconosciuto ai consoli la giurisdizione nelle cause sia criminali che civili, tanto di prima che di seconda istanza. La rinuncia da parte dei vescovi-conti alla funzione giurisdizionale civile non fu dunque scontata, ma la realtà dei fatti non tardò ad imporsi e ormai nel Duecento il tribunale vescovile (episcopalis audientia) si limitava all’esame delle sole cause di diritto canonico.
Dalla decadenza non si salvarono neppure le giurisdizioni feudali gerarchicamente inferiori a quella comitale, anch’esse soppiantate, nell’ambito dei comuni rurali, dagli organi di giustizia cittadini, nonostante le naturali resistenze, più o meno accentuate a seconda delle singole realtà locali (maggiori in Piemonte, Friuli, Napoli, Sicilia e Sardegna, rispetto a Lombardia e Toscana), da parte di chi non voleva spogliarsi del diritto di presiedere propri tribunali nelle terre di appartenenza.
La Pace di Costanza, con il riconoscimento del diritto esclusivo dei consoli di decidere le questioni civili e criminali, significò, per l’esercizio dei poteri pubblici da parte dei vertici del governo cittadino, un momento di capitale importanza, il coronamento della vittoria raggiunta con tanti sforzi e tanta perseveranza contro l’impero. L’imperatore si riservò tuttavia l’esame delle sentenze in grado d’appello, per quelle controversie il cui valore superasse le 25 lire bolognesi; a tal fine, affinché le parti non fossero costrette a recarsi in Germania, l’imperatore, Federico Barbarossa, si impegnò a tenere nelle città lombarde e toscane un suo missus, un suo rappresentante, che doveva giurare di esaminare e definire le cause secondo le leggi e le consuetudini locali ed entro due mesi dall’inizio del processo. E’ tuttavia lecito supporre che questa prassi non rimase a lungo in vigore, dal momento che negli statuti cittadini del Duecento non si riscontrano norme che attestino una procedura diretta a sottoporre all’esame di quel missus le sentenze dei consoli o del podestà del comune.
I consoli erano dunque la suprema magistratura cittadina, magistratura collegiale, giudici nel civile come nel penale, con una pratica e non ufficiale divisione interna delle attribuzioni, dedicandosi alcuni alle cause civili e gli altri a quelle criminali, ma sempre nell’ottica di un’amministrazione collegiale e congiunta della giustizia, cosicché anche quando uno solo sedeva in tribunale, la sentenza era pronunciata "in concordia aliorum consulum".
La giurisdizione dei consoli comprendeva sia la città che il distretto circostante e si estendeva anche ai forestieri presenti nel territorio comunale, mentre ne erano esentati i chierici in ossequio al privilegio del foro ecclesiastico. Presto si ebbero però altri fori speciali in favore dei mercanti (tribunali mercantili), dei militari (tribunali militari) e degli studenti (giudicati a loro scelta dai professori o dal vescovo a partire dall’Autentica Habita di Federico Barbarossa del 1155).
I consoli, nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali, erano assistiti da legum periti, detti anche causidici e consiliarii (pratici del diritto ma non giuristi dotti), la cui presenza era resa necessaria da quell’ignoranza delle leggi che era caratteristica tipica dei giudici comunali.
Quando poi si affermò la carica podestarile, tra XII e XIII secolo, l’ordinamento giudiziario si fece più complesso, aumentò il numero dei giudici, che vennero distinti per competenza, e si creò un ordine gerarchico di consules iustitiae presieduto dal podestà; questi era infatti essenzialmente un uomo d’armi che dunque, al momento dell’assunzione della suprema carica cittadina all’interno di un comune, era solito
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condurre con sè uomini di legge cui assegnare in sua vece la funzione di giudici, soprattutto nelle cause di diritto civile, irte di maggiore tecnicismo; altre volte, invece, i giudici che coadiuvavano il podestà erano eletti dal popolo o estratti a sorte tra gli iscritti al collegio cittadino dei giuristi. Tutti questi magistrati duravano in carica un anno, al pari del podestà, e tutti erano sottoposti alla fine del loro mandato a giudizio di sindacato; questo comportava un controllo del loro operato – in caso di rimostranze da parte dei cittadini – da parte della magistratura dei "sindacatori" abilitata a comminare sanzioni in caso di irregolarità.
Quanto ai requisiti che i magistrati dovevano possedere, fu richiesta col tempo la conoscenza del diritto, benché non fosse facile avere giudici istruiti, anche per la circostanza che il ruolo di giudice era temporaneo e poco retribuito, quindi poco ambito dagli esperti del diritto. Pertanto spesso la carica era ricoperta da non professionisti, e tale difetto si verificò specialmente nell’Italia meridionale (dove vi erano effettivamente meno Università, oltre tutto di epoca più tardiva, e dunque un minor numero di laureati) che ebbe una magistratura di persone non esperte di diritto ma scelte semplicemente per la buona reputazione.
A rimediare a tale inconveniente si introdusse col tempo l’uso e talvolta l’obbligo per il giudice di chiedere consiglio a giuristi dotti, sapientes e legum doctores. E’ vero che l’assistenza di tecnici non era mai mancata neppure prima, poiché legum periti e causidici (pratici del diritto ma non giuristi dotti) erano soliti affiancare i consoli nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali fin dalla prima età comunale. Tuttavia nel Trecento si impose nella prassi il consilium sapientis, del giurista laureato, e i doctores furono chiamati a rivestire un’alta funzione nell’amministrazione della giustizia.
La letteratura processualistica si dedicò ampiamente alla materia dei consilia sapientis, stabilendo quando fosse necessario chiedere il parere dell’esperto di diritto e quando fosse nulla la sentenza resa sine consilio: il giudice era sempre autorizzato a chiedere il consilium, mentre era obbligato a chiederlo in caso di sua imperitia (ignoranza del diritto), con il vincolo ulteriore di uniformarsi ad esso, e di volontà delle parti, nel qual caso le norme statutarie prevedevano l’obbligo per il magistrato di rispettare il parere ricevuto.
Una volta richiesto il consiglio, il giudice non poteva procedere a nuovi atti istruttori né accogliere nuove prove; poteva chiedere responsa a più giuristi e allora attenersi al parere di maggioranza, mentre era esonerato dal seguire il consiglio che riteneva ingiusto; ma se la sentenza conforme al parere veniva annullata o riformata in sede di giudizio d’appello, il giudice non andava incontro a nessuna sanzione in sede di giudizio di sindacato: incorreva in sanzioni solo se, non essendo esperto di diritto, non avesse fatto ricorso a chi poteva illuminarlo sulla soluzione da dare alla lite. Chi a sua volta veniva invitato a dare il suo parere non poteva rifiutarlo, mentre rispondeva in prima persona, andando incontro a severe sanzioni per dolo o colpa grave, se aveva reso un parere errato.
In pieno Duecento era pacificamente riconosciuto il principio che nel podestà risiedesse la plena iurisdictio, anche se poi la concreta amministrazione della giustizia veniva, come si è detto, delegata ad assessori o a consules iustitiae: il podestà aveva il diritto presiedere tutti i processi, tanto che le sentenze venivano sempre pronunciate nel suo nome, ma era regola generale che venisse assistito o addirittura sostituito da assessori o consoli di giustizia, giudici che il podestà forestiero in genere conduceva con sé nelle varie città in cui era chiamato a rivestire la suprema carica pubblica. Poiché però l’ufficio podestarile (e quindi anche quello degli altri magistrati) era per lo più annuale, capitava di frequente che le cause rimanessero interrotte e quindi non decise per la cessazione dall’incarico del titolare; da ciò i divieti di ricevere liti a partire da un mese prima la fine del mandato. Altra limitazione delle facoltà giudiziarie del podestà forestiero era di non poter giudicare le cause dei suoi concittadini. La sua condotta come magistrato era vagliata nel giudizio di sindacato cui i comuni sottoponevano i giudici uscenti (attraverso l’apposita magistratura dei sindacatori), e il podestà rispondeva pure dell'operato dei suoi assessori poiché gli si imputava la colpa di aver condotto con sé un giudice incapace, non conoscitore del diritto romano o delle consuetudini locali.
In età podestarile si ripristinò il sistema romano del giudice unico nominato dal podestà, con l'abolizione dei collegi giudicanti operativi nella prima età comunale quando la giustizia veniva amministrata dai consoli collegialmente. Dal Duecento in avanti il podestà prima e il signore poi attribuirono l'amministrazione della giustizia civile e criminale ai giudici, pubblici funzionari, tutti giudici ordinari, ciascuno con la sua specifica competenza e la sua insegna (volta a distinguerli per competenza), disposti in scala gerarchica.
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Si cercò di garantire nei giudici i fondamentali requisiti di un'adeguata cultura e dell'età (fissata a 30 anni) e di assicurarne l’indipendenza di giudizio, imponendo che il magistrato non fosse un ecclesiastico, che non fosse del luogo né con parentela nel distretto, così da non subire alcun tipo di influenza a scapito dell’obiettività di giudizio.
Si teneva infatti molto alla rettitudine dei giudicanti, nella consapevolezza che varie deformazioni del sistema giudiziario potevano incidere negativamente sugli esiti dell'amministrazione della giustizia, in particolare la venalità delle cariche (dunque acquistabili con denaro), la breve durata delle medesime (generalmente annuale) e le scarse retribuzioni cui era connessa la possibilità di pretendere doni dai litiganti (le c.d. sportulae che rappresentavano la parte più consistente dei loro introiti).
In particolare la pratica delle retribuzioni compiute direttamente dalle parti litiganti, che spesso consistevano in derrate alimentari (da cui anche la denominazione di esculenta -cibo - e poculenta – bevande -), era un’evidente fonte di corruzione in tutto il contesto italiano, che induceva i giudici a favorire la parte che si era mostrata più generosa e munifica.
Con l'intensificarsi della vita economica e il conseguente aumento numerico delle liti, i magistrati ebbero ben presto bisogno di aiutanti che presero il nome di assessores o auditores, tutti nominati dalle università, a differenza degli assessori podestarili che erano nominati direttamente dal podestà tra persone di sua fiducia. In sottordine vi erano poi i notai incaricati di redigere per iscritto le testimonianze, oltre che della tenuta e della conservazione degli atti delle cause: posta la scrittura a base del procedimento e dovendo tutto risultare da atti scritti, incluse le deposizioni dei testimoni e la sentenza, la figura del notaio divenne indispensabile tanto che a lui furono affidate importanti mansioni nell’ambito dell’amministrazione giudiziaria. Anche la carica di notaio era generalmente alienabile e dunque acquistabile con denaro e divenne persino ereditaria; gli statuti richiedevano che avessero un buon grado di moralità e che fossero istruiti nel diritto, oltre che buoni conoscitori del latino (gli atti processuali era infatti tutti scritti in latino).
Numerose norme statutarie disciplinavano poi le funzioni dei messi pubblici (nuntii), chiamati ad eseguire gli ordini del giudice: era loro compito notificare ai soggetti interessati gli atti dei magistrati ed esplicare le attività connesse all’esecuzione delle sentenze; poiché dovevano essere sempre pronti ad ogni richiesta, si esigeva che abitassero entro le mura cittadine; le loro dichiarazioni sulla corretta esecuzione delle mansioni loro affidate faceva fede, ma i loro atti dovevano essere accompagnati da alcune solennità: erano in particolare tenuti ad indossare un abito tipico che fosse in grado di distinguerli, una sorta di divisa, che il più delle volte si limitava ad una sciarpa rossa da portare al collo; dovevano poi avere sempre con sè il testo del Vangelo per ricevere i giuramenti quando richiesti.
All’epoca comunale i tribunali avevano una sede stabile, generalmente nel palazzo del comune o in un edificio pubblico a ciò destinato o ancora, in qualche caso, all’interno delle chiese, essendo ormai tramontato il tempo delle assise nelle piazze o nei campi. Il palazzo del tribunale era contrassegnato da un emblema che variava da città a città, e doveva rimanere sempre aperto per potere in ogni momento ricevere le richieste di giustizia dei privati; le udienze erano aperte al pubblico, come si diceva, "a terrore dei rei, ad esempio per tutti e a soddisfazione delle persone oneste".
Nella trattazione delle cause veniva seguito un ordine di precedenza che vedeva privilegiate le vertenze riguardanti i poveri, le vedove, gli orfani, le chiese e il fisco, vale a dire le c.d. causae favorabiliores, degne di attenzione prioritaria per il carattere particolarmente importante e delicato degli interessi tutelati.
I giudici esercitavano poi largamente nelle città italiane anche la giurisdizione volontaria, che si suole contrapporre a quella contenziosa, emettendo provvedimenti ad esempio in materia di nomina di tutori per minori di età, di autorizzazione delle donne, prive di capacità di agire, al compimento di atti giuridici, o ancora di conservazione di patrimoni, non dunque per riparare ad un torto ma per prevenirlo al momento stesso della costituzione di un diritto soggettivo.
Il formarsi delle signorie produsse innovazioni anche nell’ordinamento giudiziario. La principale novità fu che, essendo nelle signorie compresi territori di più comuni, ove risiedeva il signore, in genere nella città più fiorente all’interno del contesto territoriale, si istituirono tribunali d’appello.
Si formarono così nel corso del Trecento i tribunali superiori, cioè il foro della città dominante. In genere si ricorreva al tribunale centrale per un’unica istanza di giudizio per le cause di un certo valore economico e per quelle penali più gravi (reati da punire con la pena di morte o con pene corporali). Alle
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cause minori continuavano a provvedere le corti di giustizia dei singoli comuni, riservandosi sempre alla corte dominante tutti gli appelli; il magistrato locale, prima di essere investito dell’ufficio che gli veniva conferito, prestava pertanto giuramento di rinviare alla corte centrale tutte le cause in appello; era inoltre vietato ai tribunali locali risolvere vertenze che i loro abitanti avevano con i cittadini del centro principale, riservate anch’esse al tribunale centrale.
Erano riservate al foro superiore tutte le cause pubbliche, relative a diritti del fisco, a strade, mulini, boschi, per le quali vennero istituiti tribunali speciali; questi, per essere riconoscibili e distinguibili l’uno dall’altro, erano contrassegnati da un’insegna ripresa dal mondo animale, cosicché si aveva il tribunale del bue, del leone, dell’aquila, del cervo: la gente comune, per lo più, non sapeva leggere, e anche le botteghe degli artigiani si riconoscevano non per il nome ma per le insegne che le sovrastavano.
Venendo alla situazione dell’Italia meridionale, qui i Normanni avevano fondato una monarchia accentrata e consideravano il re come capo dell’amministrazione giudiziaria cui spettava innanzitutto la risoluzione delle liti tra i maggiori vassalli del regno. Al di sotto del re, ma sempre al vertice del sistema giudiziario del regno, vi erano – tutti di nomina regia - il Gran Giustiziere, responsabile della giurisdizione criminale, il Gran Camerario, competente per quella civile, così come la giustizia militare era amministrata del Gran Ammiraglio e quella ecclesiastica e feudale dal Gran Cancelliere.
Al di sotto di queste supreme magistrature vi erano poi i giudici provinciali, dislocati nelle varie province del regno, vale a dire i giustizieri, competenti per le cause penali maggiori e per quelle feudali e fiscali, i camerari, titolari della giustizia civile d’appello, e i baiuli, investiti delle cause penali di minore rilievo, per reati cioè da punirsi con pena pecuniaria, e di quelle civili di primo grado. Erano tutti di nomina regia, scelti tra persone dalla moralità indiscussa e non originari della provincia alla quale venivano assegnati, nè possessori di beni ove ricoprivano il loro ufficio, nè abilitati a ricevere doni di alcuna sorta dalle parti processuali; tutti sentenziavano in nome del re.
Al di sopra di tutti la Magna Curia, presieduta dal re (o in sua vece dal Gran Giustiziere), e composta dai grandi ufficiali del regno, era un corpo insieme politico e giudiziario, in quest’ultimo caso competente essenzialmente per l’ultimo grado di giudizio e in caso di denegata giustizia da parte dei giudici inferiori.
Il governo normanno-svevo istituì dunque nei suoi domini una regolare amministrazione della giustizia, primo ordinamento in Italia a disporre le magistrature ordinarie in scala gerarchica, sottoposte ad una curia superiore competente per gli appelli; tutti i funzionari erano soggetti al sindacato del Gran Giustiziere; ai giudici erano affiancati degli assessori esperti di diritto; le cause dovevano essere decise entro 3 mesi, e i poveri avevano diritto alla nomina di un avvocato d’ufficio. L’intendimento generale era quello di riservare allo stato, come sua esclusiva funzione, l’amministrazione giudiziaria, sottraendola ai signori feudali; tale principio non fu più osservato nei governi monarchici che, nell’Italia meridionale, succedettero al regno dei normanni e degli svevi, che, a livello locale di giudici di primo grado, fecero invece dell’amministrazione della giustizia una prerogativa ereditaria nelle mani dei signori feudali.
Le monarchie nazionali o straniere che si costituirono in territorio italiano tra Quattro e Cinquecento non apportarono innovazioni sostanziali nel campo della giustizia, limitandosi a regolare meglio la gerarchia dei tribunali con l’istituzione di tribunali supremi nell’ambito della riorganizzazione accentratrice della giustizia realizzata dai sovrani assoluti nei secoli d’Ancien Régime. Questi supremi organi centrali del potere giudiziario vennero creati (o ristrutturati sulla base dei precedenti tribunali centrali signorili) e poi ampiamente potenziati dai monarchi tra Quattro e Seicento, vennero dotati sia di competenze specifiche in unico grado per le cause riguardanti direttamente il potere centrale (cause regie e cause demaniali), sia di una generale competenza d’appello sulle pronunce delle magistrature inferiori dello Stato; vennero inoltre forniti di cospicui poteri discrezionali ed equitativi nell’applicazione alle fattispecie concrete delle fonti normative del complesso e sempre più complicato sistema del diritto comune, che consentivano un’applicazione non rigorosa e letterale delle norme giuridiche ai casi concreti, per evitare la paralisi del sistema. Tutto ciò comportò l’affermarsi, nelle varie realtà statuali, di una potente casta di magistrati di elevata preparazione tecnica (scelti tra i migliori professionisti del diritto) e di notevole influenza politica.
L’ARBITRATO
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Accanto alla giurisdizione pubblica ha avuto nell’età intermedia grande importanza, in relazione alle liti civilistiche, l’istituto dell’arbitrato, che si distingueva in volontario o necessario a seconda che fosse scelto dalle parti o imposto dalle legge.
Negli statuti e nelle opere della scienza processualistica dell’età del diritto comune si parla in modo distinto di arbiter e di arbitrator, in un’accezione che non trova riscontro nel diritto romano il quale usava la sola parola arbitro. Nell’età intermedia, diversamente, arbitro era colui al quale le parti sottoponevano i termini di una controversia affinché decidesse in base al diritto positivo, rispettando l’iter procedurale e le formalità proprie di un giudizio ordinario; l’arbitratore era invece scelto dalle parti affinché, senza l’ordine e le formalità di un processo, terminasse la contesa, per così dire, amichevolmente, ex bono et aequo.
Nell’arbitrato volontario l’arbitro veniva investito delle sue funzioni con un atto delle parti denominato compromesso (compromissum), e il giudizio arbitrale che seguiva era un vero e proprio processo, a differenza di quanto prevedeva il diritto romano che poneva l’arbitrato su basi puramente contrattuali e privatistiche e che vedeva nella decisione dell’arbiter non una sentenza ma una semplice opinione che le parti erano libere di non seguire; era solamente prevista un’azione per il conseguimento della pena pecuniaria fissata nel compromesso che doveva versare chi contravveniva alla pronuncia arbitrale: così, pagando la penale, ci si sottraeva all’osservanza della pronuncia finale. La dottrina e la pratica tardo-medievale riconobbero invece al lodo arbitrale gli effetti di una vera e propria sentenza di diritto pubblico.
Qualunque controversia civilistica poteva essere sottoposta all’arbitrato volontario, ad eccezione delle cause matrimoniali, di quelle contro il fisco, di quelle relative allo stato delle persone e di quelle feudali. La legislazione statutaria favoriva dunque la giurisdizione arbitrale per alleggerire la giustizia ordinaria, facilitare la concordia all’interno della cittadinanza e far diminuire le ragioni che alimentavano la faziosità.
L’arbitrato necessario era invece imposto dagli statuti nelle cause tra parenti: marito e moglie, padri e figli, agnati e cognati fino al quarto grado dovevano comporre le loro liti per mezzo di congiunti o di amici comuni; se le parti non si accordavano nella scelta della persona si faceva obbligo all’autorità pubblica di nominare gli arbitri d’ufficio. Ad arbitri dovevano poi necessariamente deferirsi anche le cause tra maestri di bottega e garzoni, tra artigiani e operai, tra condomini e tra soci.
Gli statuti fissavano le norme per la scelta degli arbitri: le parti in contesa ne nominavano due i quali dovevano poi procedere alla scelta di un terzo; se i due arbitri non si accordavano sul nome del terzo, vi provvedeva il giudice d’ufficio.
I rimedi ammessi contro il lodo erano gli stessi previsti per le sentenze, anche se il ricorso principale portava la diversa denominazione di reductio ad arbitrium boni viri - che era poi il giudice ordinario -, del tutto assimilabile in realtà ad un vero e proprio appello. Nel caso di lodo dell’arbitratore il termine per la reductio era addirittura di trent’anni, cosicché la decisione non acquistava forza di giudicato se non trascorso questo così lungo intervallo di tempo.
LA COMPETENZA
Alle origini dei comuni cittadini l’unico tribunale ordinario conosciuto era quello dei consoli, cosicché il cittadino rispondeva solo all’unico tribunale consolare. Successivamente, in età podestarile, si divisero le attribuzioni e vi furono magistrati ordinari per la materia civile, per quella criminale, per i beni mobili, per gli immobili e così via; i limiti di competenza erano fissati per legge, ma nella pratica, per il gran numero di tribunali, i conflitti di competenza erano continui.
Vi erano poi, accanto ai tribunali ordinari, i tribunali speciali che sottraevano in via esclusiva determinate categorie di soggetti e determinate materie alla competenza dei giudici ordinari, a cominciare dai tribunali vescovili per gli ecclesiastici e da quelli mercantili per gli iscritti alle corporazioni di arti e mestieri. I giudici speciali aumentarono quando le classi e i ceti in cui si frazionava la società tardo-medievale pretesero fori speciali; cresciute così le giurisdizioni, i contrasti tra esse si moltiplicarono, non essendo sempre di chiarezza immediata quale fosse il giudice competente. Inoltre, ogni persona di condizione sociale inferiore in lite con un nobile, un potente poteva declinare il giudice ordinario inferiore e invocare il giudice superiore dopo aver giurato di avere timore dell’avversario, cioè la "perhorrescientia
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adversarii", il timore giustificato che la posizione particolarmente influente dell’avversario potesse condizionare l’organo giudicante.
C’era poi il diritto canonico che assegnava al foro ecclesiastico, oltre alla trattazione esclusiva delle cause spirituali, anche quella delle cause civili che presentassero connessioni con materie di diritto canonico. Il diritto canonico riconduceva infatti ai tribunali ecclesiastici le causae mere spirituales (per esempio in materia di gerarchia ecclesiastica e di matrimonio), le causae ecclesiasticae spiritualibus annexae (sponsali – promessa di futuro matrimonio, connessa all’istituto del matrimonio -, benefici ecclesiastici – patrimoni assegnati ai titolari di cariche religiose -, testamento contenente disposizioni per l’anima, sepolture), le causae civiles ecclesiasticis accessoriae (in materia di dote, accessoria alla questione principale del matrimonio, di legittimazione dei figli naturali per susseguente matrimonio dei genitori), le causae miserabilium personum (relative a poveri, vedove, orfani) e infine cause in cui vi fosse da parte del giudice laico diniego di giustizia.
Inoltre, fin dai suoi primi secoli di vita la Chiesa si era adoperata per sottrarre le persone e i beni ecclesiastici al tribunale ordinario e ottenere un foro speciale presieduto dal vescovo, competente per tutte le cause civili e criminali coinvolgenti i chierici e i loro patrimoni. L’attuazione di tale principio fu di lunga elaborazione nel corso dei primi secoli del medioevo e trovò la sua consacrazione definitiva nel Decreto di Graziano e nelle successive raccolte di decretali, nonché l’ufficiale riconoscimento del potere imperiale attraverso l’Authentica Statuimus di Federico II: secondo la costituzione, infatti, "nullus ecclesiasticam personam in criminali quaestione vel civili trahere ad iudicium saeculare praesumat contra constitutiones imperiales et canonicas sanctiones. Quod si actor fecerit, a iure suo cadat, iudicatum non teneat et iudex ex tunc potestate iudicandi privetur".
Se nella dottrina politica questa giurisdizione privilegiata fu riguardata come offesa alla sovranità dello stato, per esempio negli scritti di Marsilio da Padova e di Guglielmo da Ockham, entrambi accesi avversari, tra 2 e 300, delle pretese universalistiche del papato, glossatori e commentatori l’accolsero invece senza contrasti.
E’ indubbio che il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge e alla giustizia dei tribunali è una conquista tutta moderna, raggiunta, sulla scia delle dottrine illuministiche settecentesche, negli anni che seguirono alla Rivoluzione francese: nei secoli passati la popolazione era difatti divisa in classi e ceti ognuno dei quali aveva il suo diritto e i suoi tribunali; pertanto, come avevano un proprio foro gli ecclesiastici, così erano giudicati da magistrature speciali gli artigiani, i mercanti, i nobili e gli studenti, in base alla qualità delle persone e alla materia oggetto di contesa.
Fin dalle prime fasi di formazione delle corporazioni di arti e di mestieri, in piena età comunale, quanti entravano a fare parte di queste associazioni prestavano giuramento di obbedire ai loro capi e di deferire ad essi la cognizione delle controversie nascenti per l’esercizio dell’arte. Non vi fu nessuna uniformità nell’origine e nello sviluppo delle giurisdizioni corporative: a volte erano le stesse arti che di loro iniziativa assegnavano ai consoli corporativi compiti di soluzione delle liti attinenti all’arte, tollerati dalle istituzioni politiche, altre volte le arti erano investite dagli stessi pubblici poteri di facoltà giusdicenti, formandosi, nell’uno e nell’altro caso, accanto al tribunale pubblico, un foro speciale riconosciuto, competente per le controversie tra gli iscritti all’arte e tra essi e gli estranei in materie attinenti all’esercizio del mestiere. Tale riconoscimento, iniziato all’epoca dei comuni quando le corporazioni esercitavano anche una forte influenza politica per il decisivo contributo dato alla nascita della nuova organizzazione cittadina, si perpetuò anche sotto le signorie, allo scopo di garantire al signore cittadino il favore dei ceti artigiani e mercantili, e si mantenne altresì sotto le successive dominazioni straniere d’Ancien Régime.
Nel corso del Trecento si formò, nei centri maggiori come Firenze, Milano, Pavia, Cremona, Mantova, un’istituzione più ampia, la Mercanzia o Curia mercatorum, che raggruppava e gestiva i più cospicui interessi economici cittadini e che esercitava una giurisdizione generale in materia commerciale concorrente a quella delle singole associazioni di mestiere alle quali non veniva comunque a sostituirsi. Tutte queste corti, che con la loro attività giurisdizionale contribuirono in larga misura a creare un nuovo diritto commerciale, realizzavano nelle materie di loro competenza una giustizia "de bono et equo", dunque propensa ad una soluzione equitativa delle liti sulla base dei principi dell’equità e della buona fede piuttosto che con una rigorosa applicazione del diritto scritto, anche grazie al vantaggioso ricorso ad un procedura più
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rapida e meno solenne di quella praticata nei tribunali ordinari, e alla grande innovazione dell’utilizzo della lingua volgare in sostituzione del latino.
Dalla seconda metà del Cinquecento, il foro mercantile, che vide ampliarsi piuttosto che restringersi la sua sfera d’azione per l’incremento delle attività economiche, continuò a mantenere la sua caratteristica di foro speciale dei commercianti per le cause relative all’esercizio di attività economiche, ma iniziò un processo di trasformazione destinato a completarsi nel secolo successivo: in nome dell’assolutismo monarchico che andava diffondendosi in tutta Europa venne perseguita nei singoli ordinamenti una politica mercantilistica volta ad attuare programmi esclusivamente statuali di potenziamento dell’economia e di sviluppo della produzione; tale politica fu protezionistica ed interventistica e comportava un controllo regio di tutte le attività economiche. Per queste ragioni le monarchie si impegnarono per limitare l’influenza politica della classe mercantile, creare una disciplina statuale del commercio e avocare a sè come giurisdizione statuale le antiche funzioni giudiziarie corporative, pur senza far perdere a queste la peculiare caratteristica di giurisdizione speciale, attuata però da apposite magistrature dello stato. Veniva così istituito nelle città maggiori un tribunale unico - con giudici nominati direttamente dal governo all’interno del ceto mercantile - competente in tutte le liti mercantili tra persone abitualmente esercitanti il commercio e tra queste ed estranei ma in ragione di affari di commercio. Ciò avvenne a Firenze, Venezia, Genova, Roma, Torino, Napoli e in numerosi altri centri di vita economica. Il diritto e la giustizia commerciale non persero pertanto il loro carattere di specialità: rimanevano sempre il diritto e la giustizia dei commercianti e non degli atti di commercio; solo la codificazione della materia commerciale, in seguito all’eliminazione delle corporazioni e alla proclamata libertà del commercio per chiunque, avrebbe trasformato il diritto commerciale in disciplina di un’attività esercitabile da qualsiasi individuo, anche occasionalmente, attuando in tal modo l’obiettivizzazione del diritto commerciale.
Foro assolutamente speciale fu poi quello concesso agli studenti universitari da Federico Barbarossa nel 1155 con l’Authentica Habita che, tra gli altri privilegi accordati a studenti e professori dello Studium di Bologna, incluse quello che gli studenti fossero giudicati "coram domino vel magistro suo vel ipsius civitatis episcopo"; questa costituzione si ispirava ad una famosa prescrizione di Giustiniano che imponeva al vescovo e ai professori di esercitare vigilanza e disciplina sugli studenti. Il privilegio federiciano, dalla dottrina applicato estensivamente a tutte le scuole universitarie italiane, fondò il foro degli studenti; i professori, però, si trovarono presto in difficoltà nell’esercizio della giurisdizione criminale, per la mancanza di mezzi idonei, e conservarono, per lo più, solo quella civile, gestita dal rettore, scelto tra i professori. L’esecuzione delle sentenze (sia del rettore che del vescovo) era però riservata ai giudici ordinari.
Si può dire in sostanza che, nell’età del diritto comune, chiunque aveva il suus iudex, il giudice suo proprio, a seconda che fosse un ecclesiastico, un nobile, un commerciante, un militare, un ebreo, uno studente e così via, che doveva rigorosamente individuare pena la nullità degli atti compiuti presso un altro tribunale. Solo nella seconda metà del Settecento, epoca di iniziali riforme all’interno degli ordinamenti statuali europei, si soppressero alcune delle giurisdizioni speciali che nelle epoche precedenti avevano facilitato ogni genere di abuso e di corruzione, mentre quelle che ancora sopravvivevano vennero definitivamente abolite dalla legislazione rivoluzionaria francese importata in Italia a seguito della conquista militare e fautrice del moderno principio di una giustizia uguale per tutti.
Al di là dei tribunali speciali, nell’età di mezzo la regola basilare per individuare il giudice competente era quella del domicilio del convenuto.
Per la tutela di interessi legati alla proprietà fondiaria valeva invece generalmente la regola della competenza rei sitae, cioè determinata in base al luogo di collocazione del bene immobile oggetto di contesa (ma il principio venne presto esteso anche ai beni mobili). Anche questo principio era tuttavia soggetto a limitazioni, soprattutto a vantaggio dei cittadini cui spettava il diritto di portare le cause relative ai loro beni, ovunque collocati nel territorio dello stato, davanti ai giudici cittadini; era inoltre sempre possibile ricorrere, anche nelle vertenze relative ad immobili, al foro del domicilio del convenuto.
Era poi operante il forum contractus, previsto sia dal diritto romano che dal diritto canonico, secondo cui in materia di rapporti obbligatori nascenti da contratto l’azione doveva essere promossa nel luogo di
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adempimento del contratto, pur con tutte le eccezioni fissate dalle norme statutarie e con quelle relative ai privilegi dei titolari di fori speciali.
Per limitare i conflitti di competenza, la dottrina aveva elaborato il principio della praeventio inter plures iudices secondo cui la stessa lite non poteva essere portata davanti a diversi giudici parimenti competenti a risolverla, ma doveva continuare fino al termine davanti al giudice adito per primo. Nell’applicazione la regola incontrò però varie deroghe, per esempio se colui che aveva iniziato la causa nel corso di essa diveniva ecclesiastico o milite nell’esercito: in tali evenienze si doveva necessariamente cambiare giudice, perché questi privilegi erano istituiti non tanto a beneficio della persona quanto della categoria di appartenenza, e pertanto ad essi non si poteva rinunciare; il giudice doveva quindi declinare il giudizio quando mutava la qualità di una delle parti.
Molto considerato dalla dottrina fu anche il forum reconventionis che mirava ad ovviare all’inconveniente che l’attore, titolare di molte liti con la stessa persona, presentasse ognuna di esse a giudici diversi che decidessero gli uni indipendentemente dagli altri: si imponeva così che le controversie fossero tutte sottoposte ad un medesimo organo giudiziario, a scelta dell’attore tra tutti quelli parimenti competenti, che diveniva così competente per tutte.
Alle parti era comunque sempre concessa, salve poche eccezioni, la c.d. proroga consensuale del foro, secondo il principio che "privatorum consensus suum possit iudicem constituere": era dunque ammesso dalla dottrina e dalla pratica che il consenso di entrambi i contendenti potesse modificare il giudice competente, specialmente quando si invocava il foro ecclesiastico in alternativa a quello secolare nelle cause civili (ma non valeva il contrario).
Tutte le regole relative alla competenza cessavano di operare se veniva accolta in giudizio l’eccezione de foro suspecto o de legitima suspicione del giudice, con conseguente trasferimento della causa davanti ad altro giudice.
Innumerevoli erano le ragioni di sospetto che una parte poteva addurre contro il giudice adito, alcune della quali logiche e giustificate, altre puramente pretestuose: imperizia, notoria negligenza nell’istruzione delle cause, il fatto che il giudice fosse suscettibile di corruzione, amico dell’avversario, corregionario della controparte, ma anche se uno dei litiganti fosse stato visto parlare al giudice segretamente o il magistrato non avesse salutato la parte che lo ricusava. Potevano dunque essere allegati i pretesti anche più futili per ottenere la declinatoria del foro e il trasferimento della causa davanti ad altro giudice, e su di essi si pronunciava il presidente del tribunale davanti al quale il giudice ricusato aveva il diritto di ribattere; se il ricorso veniva respinto, con provvedimento non suscettibile di appello, il ricorrente veniva processato per calunnia. La dottrina era comunque favorevole alla ricusazione del giudice per legittimo sospetto quale lecito mezzo di difesa e la proponeva come la prima tra le eccezioni che il convenuto era abilitato a presentare per opporsi alla domanda dell’attore.
Analogamente venivano meno tutte le regole sulla competenza del giudice se il principe o il sovrano avocava a sé la decisione di una lite. Il diritto del principe di avocare a sè la decisione delle cause, di alterare l’ordine delle giurisdizioni, di mutare le competenze, di istituire tribunali speciali era perfettamente coerente coi caratteri dell’assolutismo politico. La volontà del sovrano non conosceva infatti limitazioni e le istituzioni giudiziarie esistenti nel suo territorio non lo vincolavano in alcun modo, potendo egli mutarle a suo arbitrio. Era quindi naturale l’avocazione di liti iniziate presso le magistrature ordinarie per giudicarle in prima persona o rimetterle al giudizio di altro tribunale o di uno speciale giudice delegato. Tale sovvertimento delle competenze provocato dal sistema delle avocazioni fu tipico delle monarchie assolute e si protrasse quindi per tutto il Settecento.
LE PARTI
Con la rinascita del diritto romano furono riportati in auge la terminologia romanistica dell’actor e del reus e i requisiti richiesti in vista della capacità processuale dei soggetti.
Non potevano stare in giudizio i minori di 14 anni, gli eretici e i banditi (colpiti da bando – esilio -); gli stranieri erano ammessi solo a condizione di reciprocità; vi era poi il divieto di stare in giudizio per le donne, le quali dovevano essere rappresentate da un parente, dal marito o da un procuratore.
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Vi erano procuratori "cum mandato" e "sine mandato": questi ultimi erano i parenti più prossimi cui spettava la rappresentanza dei minori, delle donne, degli assenti e degli inabilitati; il diritto canonico includeva tra i procuratori senza mandato anche il vescovo che rappresentava le chiese della diocesi e i loro chierici. Negli altri casi serviva invece un mandato scritto.
L’ufficio di procuratore era reputato ufficio vile e umile, quindi non assumibile da nobili, e venne vietato per incompatibilità a soggetti titolari di cariche pubbliche, e per indegnità allo scomunicato, all’eretico, all’imputato di crimine capitale (punibile con la pena di morte) e al malfamato.
La figura del procuratore era inferiore a quella dell’avvocato: i primi erano costituiti ad agendum causas in nome del cliente, cioè per eseguire materialmente gli atti della causa al posto della parte, gli altri ad assolvere il ruolo di difensori sul piano giuridico.
La parte che non era economicamente in grado di farsi assistere da un avvocato ne riceveva uno nominato direttamente dal giudice, per l’impossibilità pratica per i litiganti di stare in giudizio in prima persona per il forte tecnicismo che caratterizzava tutta la procedura. I governi cittadini a provvedevano infatti alla pubblica difesa dei poveri, con i c.d. advocati pauperum pagati direttamente dal comune. La Chiesa, dal canto suo, fin dai tempi antichi, aveva affidato alle attenzioni dei vescovi le miserabiles personae, cioè poveri, vedove e orfani. Paradossalmente, dunque, le persone più bisognose che per i pregiudizi di classe dei secoli passati erano escluse dalla vita pubblica, disprezzate a livello sociale, dichiarate persino senza onore, espulse dalla città in occasione delle carestie, non ammesse a testimoniare né ad accusare, viceversa ricevevano gratuita protezione nei tribunali e godevano di altri privilegi già previsti dal diritto romano e confermati anche dal diritto canonico quali la giustificazione dalla contumacia, cioè dalla non comparizione in giudizio (sanzionata altrimenti con la scomunica), verosimilmente dovuta a mancanza di mezzi per affrontare il viaggio verso il tribunale, e la possibilità di proseguire la trattazione delle loro cause anche nei giorni festivi (tradizionalmente riservati al culto a Dio), come si diceva, "in honorem Dei", poiché le loro cause erano reputate cause pie, protette direttamente da Dio, particolarmente benevolo coi meno fortunati.
Accanto alle parti principali era poi ammessa nel rito romano-canonico la partecipazione di un terzo soggetto nel processo, già presa in considerazione dal diritto romano che aveva considerato l’intervento del terzo interessato (dell’is cuius interest), soltanto come possibilità, per il terzo che avesse subito un pregiudizio da una sentenza resa tra altre parti, di proporre appello contro quella pronuncia. I processualisti dell’età intermedia diedero invece al tertius, nome da essi coniato, la facoltà di far valere il suo interesse in ogni fase della lite.
Tertius era non solo chi poteva subire un qualunque pregiudizio dalla conclusione del processo, ma pure chi avesse un qualunque interesse sulla cosa oggetto del contendere.
Tale allargamento delle facoltà di intervenire in un processo tra altre parti principali fu opera genuina del diritto canonico.
L’innovazione della dottrina italiana stava nell’aver riconosciuto l’intervento del terzo non solo in sede d’appello come prevedeva invece il diritto romano, ma in qualunque fase del giudizio, attraverso la presentazione di un atto di opposizione. Il terzo doveva sommariamente provare il suo interesse alla causa e prendeva posto nei termini in cui il processo era giunto; poteva proporre nuove eccezioni e nuove prove, attraverso le quali tutelare il suo interesse in giudizio, e la sentenza finale aveva effetto anche nei suoi confronti. Questo tipo di intervento fu definito principale e si distingueva da quello qualificato come volontario che si attuava quando un terzo veniva semplicemente in aiuto di una delle parti litiganti.
Da ultimo, il terzo poteva anche essere chiamato ad intervenire nel giudizio su istanza della parte che o sapeva del pregiudizio che un estraneo avrebbe potuto ricevere dalla sentenza, ovvero chiedeva l’assistenza di un soggetto esterno alla lite principale; in tali evenienze il terzo veniva citato a comparire e la sentenza aveva effetto nei suoi confronti anche nel caso di sua contumacia.
L’INTRODUZIONE DELLA CAUSA
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Il procedimento iniziava con la libelli oblatio (analoga alla romanistica editio actionis) e con la citazione della controparte a comparire, atti denominati dalla dottrina "praeparatoria de substantia" in quanto preliminari all’intero svolgimento del processo.
Atto solenne, il libello era dunque un atto scritto, firmato dall’attore, presentato in giudizio "iudice sedente", cioè in presenza del giudice nell’esercizio della sua carica; doveva contenere l’esposizione del fatto, il diritto soggettivo che si voleva difendere, il tipo di azione esperita e la richiesta dell’agente. Il giudice che riceveva il libello in originale doveva poi, su impulso dell’attore, consegnarne copia al convenuto insieme con l’atto di citazione; col tempo, tuttavia, la presentazione del libello non fu più ritenuta atto necessario, bastando il semplice atto di citazione in giudizio dell’avversario, con eventuale consegna del libello in un momento successivo.
Progressivamente sia la pratica che la dottrina arrivarono ad ammettere la validità del libello anche senza la precisa indicazione del tipo di azione che si voleva esperire, e addirittura la proposizione di più azioni, in alternativa l’una all’altra, col medesimo libello, nell’ottica di liberare il processo da un inutile e rischioso nominalismo e formalismo: il rischio era infatti quello di presentare in giudizio l'azione sbagliata, in relazione al diritto che si voleva tutelare, con la conseguenza di un rigetto della domanda da parte del giudice.
Consegnato al giudice il libello, questo veniva poi comunicato, su iniziativa dell'attore, per mezzo di un executor, cioè di un messo pubblico, insieme con la citazione a comparire in giudizio, al reo o convenuto che veniva così invitato a "cedere vel contendere"; eccezionalmente la citazione poteva essere fatta a voce, dal giudice al convenuto, se questi era presente in giudizio; la regola era comunque quella dell’intimazione fatta per iscritto presso l’abitazione del convenuto, e ripetuta per tre volte a intervalli regolari (in genere di 10 giorni), con indicazione del termine perentorio nel quale comparire, in genere a distanza di 30 giorni, fissato dal giudice per un giorno non festivo. Le tre citazioni obbligatorie potevano anche eseguirsi contestualmente, e si prestava fede alla relazione del messo che dichiarava di averla eseguita correttamente. La citazione stessa doveva eseguirsi in giorno non festivo, dal sorgere del sole fino al tramonto. Qualora il messo non trovasse il citando nella sua abitazione, affiggeva l’atto di citazione - scritto in latino salvo che nelle cause mercantili per le quali si usava la lingua volgare - sulla porta di casa. Era possibile anche la consegna dell’atto di citazione non direttamente al reo ma a persona di famiglia presente nel domicilio del convenuto.
Vi era poi la citazione pubblica, c.d. per edictum (edictalis), cioè per proclama affisso in luogo pubblico (alla porta del tribunale o in altro pubblico luogo), o anche letto pubblicamente in chiesa o in piazza, con i medesimi effetti di una comunicazione fatta al domicilio; questa modalità era utilizzata per citare le persone giuridiche (universitates o collegia), i chierici, che venivano chiamati in giudizio con affissione del pubblico avviso in chiesa, considerata loro domicilio, i latitanti (fuggitivi), di cui si ignorava il domicilio, e infine tutti quei soggetti di cui era nota la prepotenza e l’aggressività, che verosimilmente avrebbero minacciato o offeso - con parole o, peggio, con atti - il messo pubblico.
Vi era poi ancora la c.d. citatio realis, che era la cattura, utilizzata oltre che nei giudizi criminali, eccezionalmente anche nei civili quando vi era il sospetto che il debitore si sottraesse con la fuga; non si ricorreva però ad essa, nel civile, quando si trattava di donne.
Dopo tre citazioni rimaste inefficaci era dichiarata la contumacia del reo, che veniva intesa come confessione delle domande esposte dall’attore nel libello; a questo punto il giudice consentiva all’attore, con un primo decreto, la missio in possessionem nei beni del contumace, che comportava sequestro dei beni, prima mobili e poi immobili, fino al raggiungimento dell'ammontare del valore della causa, la cui custodia era affidata all’attore; i beni andavano però restituiti al convenuto se questi compariva in giudizio se pure in ritardo e a questo punto aveva inizio il processo. Se nonostante tutto ciò il convenuto non si presentava, il giudice passava alla pronuncia di un secondo decreto che rendeva l’attore effettivo proprietario dei beni sequestrati al contumace; tra i due decreti doveva intercorrere un intervallo che, a seconda degli statuti, andava da uno a tre o più mesi, ovvero fissato ad arbitrio del giudice. Il secondo decreto non veniva però concesso se il giudice appurava che il contumace non si presentava in udienza per malattia sua o dei suoi familiari, per pellegrinaggio religioso o povertà.
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Un profilo al quale fu particolarmente sensibile la scienza processualistica dell’età intermedia era quello dei termini processuali, cioè dei tempi della giustizia, "ne lites fiant immortales" (al fine di non rendere le liti interminabili). Del resto anche numerose disposizioni legislative, sia di diritto romano che di diritto canonico, si soffermavano su questo aspetto, stabilendo il pagamento di sanzioni pecuniarie qualora fossero intentate liti temerarie (ovvero senza un minimo fondamento) e per chi si ingegnava a prolungare il processo con astuzia e con dolo.
Era previsto un termine preciso per ogni atto della procedura: per la presentazione del libello, per l’atto di citazione, per la comparsa delle parti in udienza, per l’esibizione dei mandati dei procuratori, per la presentazione dei mezzi di prova e così via. I termini fissati dalle leggi e dalla dottrina erano piuttosto stretti, in genere variavano dai 3 ai 10 giorni per ogni singolo atto, ma era nella facoltà del giudice di allungarli per motivi legati a distanze, a malattie o ad altre difficoltà che impedissero ad un soggetto il raggiungimento tempestivo del tribunale.
Il diritto romano prevedeva poi il termine di tre anni per la conclusione dell’intera istanza di giudizio, pena la decadenza, ma il diritto canonico non accolse questo principio per ragioni essenzialmente equitative, mentre le legislazioni statutarie fissavano termini finali variabili a seconda della natura delle cause (1, 2, 3 anni, ma anche 2, 4, 6 mesi), rimanendo però anch’esse spesso disattese nella prassi.
La dottrina medesima, se da un lato propugnava termini rigorosi, dall’altro precisava che i giudici non erano strettamente vincolati ad essi "proper multitudinem causarum", per via cioè del numero elevato di cause che erano tenuti a seguire contestualmente, cosicché le liti diventavano veramente eterne.
Non è difficile immaginare i gravi danni che ne derivavano, non solo alla complessiva amministrazione della giustizia, ma anche all’economia. La circolazione dei beni mobili e immobili, oggetto di contese giudiziarie, veniva ad essere bloccata per lunghi periodi di tempo per i divieti di alienazione e di altre forme di disposizione dei beni oggetto di liti processuali (le res litigiosae); tutto ciò nell’interesse pressoché esclusivo del ceto forense, giudici ed avvocati, i cui interessi patrimoniali erano abbondantemente legati al carattere interminabile dei processi.
DALLA COMPARSA IN GIUDIZIO ALLA
CONTESTAZIONE DELLA LITE
Il convenuto, una volta comparso in giudizio, ricorreva a quelle che la Glossa accursiana chiamava arma reorum, cercava cioè di opporsi alle domande dell’attore attraverso le eccezioni. Giuristi civilisti e canonisti distinsero due categorie di eccezioni: quelle facti o intentionis, e quelle iuris o actionis: con le prime si dichiarava inesistente il fatto, con le seconde non giuridicamente fondata la pretesa dell’attore. La dottrina aveva enumerato tutta una serie di eccezioni raggruppate nelle due categorie delle eccezioni dilatorie e perentorie, a seconda che mirassero solo a prolungare la durata della lite ovvero a porvi fine.
Tutte le eccezioni dovevano essere proposte prima della litis contestatio, in conformità a quanto stabilito dal diritto romano; tuttavia una decretale di Innocenzo III venne a consentire, per ragioni di equità, la presentazione delle eccezioni dilatorie in vari momenti del processo e non necessariamente tutte insieme, il che contribuì però, involontariamente, a dilatare i tempi delle cause.
Il giudice, nello stesso giorno in cui le eccezioni venivano presentate dal convenuto, le ascoltava e le risolveva con una sentenza interlocutoria (non conclusiva del processo).
Comparsi i contendenti dinanzi al giudice, era previsto, in osservanza delle norme di diritto romano e di diritto canonico, che fosse prestato da entrambe le parti il iuramentum calumniae. Benché secondo il diritto canonico i litiganti non potessero rinunciarvi, pena la perdita della lite da parte di chi ometteva di prestarlo, esso divenne obbligatorio nella prassi solo qualora l'attore o il reo ne facessero esplicita richiesta. Il contenuto di tale giuramento riguardava la buona fede della parte che lo prestava e la credenza nel proprio diritto: si giurava in sostanza di litigare per la convinzione di avere ragione (e non per calunniare la controparte), e di comportarsi lealmente nel corso di tutta la vertenza.
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Alle parti era inoltre consentito di prestare giuramento tramite il rappresentante, il quale era pertanto tenuto a giurare sia «in animam domini» che «in animam suam». I procuratori dovevano infatti giurare, innanzitutto per se stessi, di credere alla bontà della lite e di non avvalersi di cavilli, e incorrevano anch’essi, in caso di inosservanza, in una sanzione. Tutti erano tenuti a prestare giuramento di calunnia, tranne i minori, i chierici, il padre nelle cause contro il figlio, l’erede per le cause del defunto, il signore in lite contro il vassallo: in tali casi la buona fede era infatti presunta.
Compiuta la formalità del giuramento, si entrava nel merito della vertenza con la contestazione della lite, momento essenziale dell'antica procedura romana cui si attenne anche il diritto dell'età di mezzo.
La litiscontestatio era un atto formale e solenne che le parti contendenti compivano dinanzi al giudice: il magistrato interrogava entrambe le parti sulle relative intenzioni cosicché l'attore ripeteva quanto esposto nella domanda e il convenuto confessava o negava le affermazioni della controparte. Perché le due dichiarazioni avessero valore di litiscontestatio era necessario che fossero rese manifestando l'animus, cioè la volontà, di procedere nella causa e quindi di presentare le rispettive prove (animus litigandi).
In tale scambio delle opposte intenzioni, da effettuarsi simultaneamente e con formule rituali, venivano fissate le ragioni del litigio e senza di esso sarebbero stati pertanto nulli tutti gli atti che si fossero intrapresi nella causa: alla litiscontestatio era quindi riconosciuto il valore di fundamentum litis.
Nell’età intermedia si affermò, però, nella dottrina e nella prassi, l'orientamento che la lite potesse dirsi validamente contestata anche senza l'uso di formule rituali e senza la contestualità delle dichiarazioni, ma con la semplice risposta del convenuto che, comparso in giudizio, mostrasse il suo animus litigandi. L'attore, dal canto suo, si riteneva obbligato alla controversia dalla presentazione del libello e dalla narrazione dei fatti ivi contenuta.
Tale alterazione nelle modalità della litiscontestatio, resa in sostanza atto unilaterale, contribuì a dare snellezza e rapidità al giudizio.
Alla pendenza della lite in senso ampio, più che alla litiscontestatio in particolare, si collegava poi la dottrina degli attentati, introdotta ex novo dal diritto canonico e materia largamente sviluppata dai canonisti. Si definiva 'attentato' ogni innovazione apportata da una delle parti litiganti all’oggetto del contendere (res litigiosa) in disprezzo della regola, sancita in numerose decretali pontificie, secondo cui, dopo l’avvio del giudizio non si dovesse modificare nulla (nihil innovetur); la conseguenza giuridica dell’attentato era la revoca immediata dell’atto compiuto.
LE PROVE
Dopo la litiscontestatio spettava all'attore provare la sua pretesa, innanzitutto attraverso la presentazione di posizioni ed articoli.
La funzione tipica che le positiones assolvevano nei tribunali era quella di sollevare l’attore dall'onere della prova, poiché con esse l’attore esponeva i fatti della lite e provocava l'avversario ad un'ammissione degli stessi che altrimenti avrebbe dovuto dimostrare. Il fine era, in sostanza, quello di raggiungere più rapidamente la verità giudiziale, inducendo il convenuto ad un volontario riconoscimento della stessa.
Con gli articoli, invece, si dava certezza alla lite, poiché in essi venivano fissate le prove che l'attore doveva prestare, qualora la controparte rispondesse negativamente alle posizioni.
Negate le posizioni da parte del convenuto e ammessi gli articoli di una o di entrambe le parti, si riconosceva ai litiganti la libertà di provare le loro pretese, ponendo dinanzi al giudice i mezzi da cui avrebbe dovuto scaturire la verità.
Il giudizio si svolgeva tutto sulle prove in vista del raggiungimento di una verità formale che si supponeva rappresentativa della verità materiale. Il giudice non doveva intervenire ma lasciare alle parti la maggiore libertà di agire e poi attenersi a quanto risultava dalle prove addotte, anche se come privato era convinto del contrario. Da tali principi derivò la dottrina delle prove legali che negava il libero convincimento del giudice tenuto a giudicare "secundum allegata et probata" (poichè "quod non est in actis non est in hoc mundo") e soprattutto ad attribuire alle prove il preciso valore stabilito per legge, senza la facoltà, propugnata a partire dall’età illuministica, di valutarle liberamente.
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Il principio romanistico che onus probandi incumbit ei qui dicit ottenne, a partire dalla fine del XII secolo, la conferma delle norme canonistiche, col risultato che ciascuna parte aveva l’onere di provare il fondamento delle sue affermazioni e persino delle negazioni, ricorrendo per queste ultime al giuramento o alla confessione, essendo impossibile un riscontro in termini concreti ed evidenti del contenuto di una negazione (per es.: io non posseggo quel bene).
Rimase comunque principio fondamentale quello espresso dall'aforisma actore non probante reus absolvitur: tuttavia l'insufficienza delle prove fornite dallo stesso convenuto impediva una sentenza assolutoria ab observantia iudicii, ma soltanto ab impetitione actoris alla luce della molestia arrecata al convenuto con la chiamata in giudizio ad opera della parte agente.
Veniamo ora agli strumenti di prova.
Abbandonate progressivamente, a partire dall’anno Mille, le prove ordaliche di marca germanica, si aprì la via alle prove razionali, praticate peraltro anche nell’età alto-medievale dalla Chiesa, contraria a prove volte a strumentalizzare il potere divino e a sollecitarne quasi a comando una manifestazione nelle vicende umane.
In un'epoca in cui mancavano per lo più archivi notarili e i documenti e le carte scritte in genere erano facilmente soggette a distruzione a causa di incendi o di guerre, la prova per testimoni costituiva la prova per eccellenza. La parte che intendeva avvalersene doveva innanzitutto compiere la publicatio testium, vale a dire comunicare per iscritto al giudice i nomi dei testimoni e i capitoli dell'interrogatorio che sarebbe poi stato condotto dal magistrato.
Circa il loro numero, vigeva la regola che unus testis nullus testis (est), cioè vox unius vox nullius, secondo un principio giuridico che affondava le sue radici nell'Antico Testamento (Libro del Deuteronomio) e che aveva trovato successivamente conferma nel Codice e nel Digesto di Giustiniano e nelle Decretali di Gregorio IX. Pertanto due testi facevano piena prova, uno solo costituiva prova semipiena da completarsi dunque di necessità con altri strumenti probatori; ciò però non valeva in materia di danni alle coltivazioni nei campi dove bastava un singolo testimone per la difficoltà di rinvenire con facilità persone all’interno delle terre adibite a coltivazione.
I testi, per essere considerati degni di fede e dunque attendibili, dovevano presentare requisiti di conditio (condizione sociale idonea), sexus, aetas, discretio (capacità di discernimento), fama (buona fama), fortuna (condizione patrimoniale adeguata), fides (fede religiosa), valutati attentamente dal giudice.
Venuto il momento della deposizione testimoniale, l'avversario doveva essere citato per assistere al giuramento dei testimoni di dire il vero - toccando il Vangelo - e all'esame dei testi medesimi, per essere messo in condizione di dedurre subito le controprove. Le deposizioni avevano ad oggetto esclusivamente il fatto (la sua qualificazione giuridica e la questione di diritto erano infatti di esclusiva competenza del giudice), venivano redatte per iscritto dal notaio della causa e dovevano essere obbligatoriamente rese entro il termine perentorio assegnato dal giudice.
Erano altresì valide, secondo l'uso comune, le deposizioni rese prima della litiscontestatio dai testimoni c.d. affuturi, interrogati anticipatamente in esordio di lite e alla presenza della controparte previamente citata: l'urgenza si giustificava di fronte a soggetti gravemente malati oppure in età avanzata, reputandosi tale l’età superiore ai 50 anni, per i quali dunque si temeva la morte, oppure di fronte a persone in procinto di partire.
Ai testi non era consentito di correggere la deposizione resa validamente, se non nell'immediatezza del proprio intervento, poiché decorso un intervallo di tempo si presumeva che il teste fosse stato maliziosamente istruito su cosa dire dalla parte che lo aveva chiamato a deporre. Le loro parole, inoltre, si interpretavano, nel dubbio, contro la parte che li aveva prodotti. Il giudice, alla fine della deposizione, doveva leggerne il contenuto al testimone che l’aveva resa e chiederne conferma, dopodiché veniva assegnato alla controparte un termine per controdedurre.
La tendenza ad attribuire minor valore alla prova testimoniale e a richiedere di preferenza la prova scritta si avverte soprattutto nella legislazione posteriore al Cinquecento; nell’epoca precedente, al contrario, si diceva con convinzione che "dignior est vox viva testium quam vox mortua instrumentorum" (è più degna di fede la voce viva dei testimoni della voce fredda dei documenti scritti). Resta comunque un contributo della dottrina dei glossatori e dei commentatori aver dato alla materia delle prove documentali quelle regole e quella disciplina che non esistevano invece nel diritto romano, il quale non faceva alcuna differenza tra documento pubblico e privato, anche perché il diritto romano non attribuiva alla professione dei notai un
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carattere di ufficialità in virtù del quale ai loro atti fosse conferita l’efficacia di prova piena. Ai glossatori e ai commentatori va dunque il merito di avere elaborato l’odierna teoria dei documenti, riuscendo a costruirne le regole, col solito metodo interpretativo fondato sull’analogia, sulla base degli scarsi spunti offerti dalle fonti giustinianee.
Tra le prove scritte massimo valore era attribuito, nell’età intermedia, allo strumento pubblico redatto da un notaio, che faceva in giudizio piena fede se era stato confezionato in osservanza di tutte le formalità richieste: rogatio, cioè chiamata delle parti, da cui il termine moderno di rogito, presenza e la sottoscrizione dei testimoni, sigillo del notaio, infine data e luogo. Il sigillo del notaio era qualificato vox mortua, mentre le sottoscrizioni dei testi erano la vox viva del documento.
L’importanza che veniva assegnata agli atti pubblici giustificava le sanzioni che erano comminate contro chi deteneva un documento che ad altri interessava e si rifiutava di esibirlo. La mancanza di archivi pubblici imponeva difatti severe misure affinché non fossero sottratte prove utili all’accertamento giudiziale della verità; così gli statuti autorizzavano i giudici a far perquisire le case e a fare arrestare chi non consegnava le scritture richieste.
Le scritture private, quali le lettere dei privati, i libri delle corporazioni e i registri parrocchiali, avevano valore di prova se erano munite della firma di tre testimoni e del sigillo dello scrivente, o, in mancanza, se l’autore le riconosceva o si provava diversamente che egli le aveva scritte; ad esse era accordata in ogni caso un’efficacia probatoria tendenzialmente inferiore a quella dell'atto pubblico. Nell’età comunale si potevano compiere con scrittura privata anche compravendite di immobili, donazioni e testamenti, in alternativa all’utilizzo dell’atto pubblico. Anche i documenti privati non valevano senza limiti di tempo, fissandosi in linea di massima la scadenza ai 5 anni, con la conseguenza che, decorso il termine fissato dalla legge, le carte dovevano essere rinnovate.
Secondo le elaborazioni dottrinali la confessione, giudiziale o extragiudiziale (in questo caso doveva essere però provata da testimoni), aveva la più completa efficacia probatoria e si presentava dunque come prova piena in pregiudizio di chi confessava, definita pertanto "optima regina probationum": ottenuta la confessione dell'avversario, non era più necessario il ricorso ad altre prove; vi erano tuttavia delle eccezioni a tale principio tra cui l'incapacità di agire del soggetto, perché per esempio minore d’età o insano di mente, o la palese contrarietà della confessione alla verità (era dunque necessaria la sua verosimiglianza).
Resa la confessione il giudice aveva l’obbligo di fondarsi su quella prova piena e decisiva. Doveva quindi pronunciare la sentenza, se la confessione era stata compiuta dopo la litis contestatio; se invece veniva resa prima della litis contestatio alla confessione seguiva in modo diretto il praeceptum del giudice immediatamente esecutivo.
Viene poi in considerazione la materia del giuramento, del notorio e degli indizi.
Il diritto canonico e la scienza canonistica diedero molta importanza al giuramento, creando nuove figure ignote al diritto romano: ne ampliarono l’applicazione e innovarono in punti di notevole importanza, in particolare elevando il giuramento a vero e proprio mezzo di prova là dove il diritto romano lo considerava semplicemente come surrogato di prova cui ricorrere in assenza di prove effettive.
Vi era il giuramento suppletorio, deferito dal giudice alla parte che avesse un fondamento di prova, ma non una prova piena: la parte richiesta non poteva rifiutarlo senza perdere la causa. Perché il giuramento fosse valido doveva essere prestato da persona di buona fama e al di sopra del sospetto di spergiuro e in una lite di modico valore. Se entrambe le parti avevano provato le loro affermazioni con prove semipiene, cioè con prove non piene (un solo testimone anziché due o più, o poche presunzioni non in grado di dare complessivamente vita ad una prova piena), era nell’arbitrio del giudice deferire il giuramento suppletorio all’una piuttosto che all’altra, e la preferenza doveva comunque accordarsi a quella che si poteva verosimilmente presumere non avrebbe giurato il falso. Non erano idonei a prestare questo giuramento gli scomunicati, gli ebrei e gli usurai.
Anche il iuramentum purgationis (purgatorio) aveva il favore del diritto canonico e venne accolto pure nella legislazione statutaria. Vi si faceva ricorso nei giudizi penali per consentire all’imputato di un delitto di difendersi dall’accusa qualora non vi fossero testimoni contro, e a carico del convenuto nelle cause civili in assenza di altri mezzi di prova.
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Vi era infine il giuramento decisorio, detto anche giuramento di verità che veniva deferito o dal giudice o dalla parte, in quest’ultimo caso però con l'approbatio iudicis, per porre fine alla lite giudiziaria. Non era tuttavia ammesso contro un atto notarile, né contro testi giudicati attendibili e nemmeno nelle cause matrimoniali; vi si ricorreva invece ampiamente per la stima dei danni.
Oltre a queste prove la dottrina elencava un’altra serie di strumenti probatori, costituiti dal notorio, dagli indizi e dalle presunzioni.
In alcuni casi si consentiva difatti la prova attraverso il notorio, la fama, attraverso cioè la circostanza che un determinato fatto fosse noto a molti e quindi innegabile, stando sotto gli occhi di tutti.
La fama e la notorietà di una circostanza dovevano essere provate per mezzo di testimoni disposti ad attestare l’esistenza di una publica voce; il numero dei testi, in genere 2 o 3, era variabile a seconda dei singoli ambiti in cui la notorietà veniva fatta valere.
Infine, in tema di indizi e presunzioni notevole fu lo sforzo di civilisti e canonisti per ridurre tutta la materia entro schemi sistematici. Innanzitutto si definirono le presunzioni come prove generalmente semipiene, necessitanti dunque, per lo più, di essere integrate da altri elementi al fine di costituire piena prova, in nome del fondamentale principio che governava tutta la materia probatoria secondo cui "quae singula non prosunt collecta iuvant": singoli elementi di prova di per se stessi insufficienti possono contribuire, se assommati ad altri, a creare una prova piena.
ALLEGAZIONI E CONSILIA
Come tutti gli atti del processo, anche le difese in fatto e in diritto degli avvocati, le c.d. allegationes, dovevano essere redatte per iscritto, oltre che esposte a voce davanti al giudice, che doveva ascoltare con attenzione; non mancavano nel diritto comune regole precise sul modo di comporre le allegazioni: dovevano essere brevi, complete, senza false citazioni di leggi o errata interpretazione delle stesse e, a partire dal tardo Trecento, fondate sulla communis opinio. Il giudice poteva privare della parola l’avvocato arrogante, cavilloso e perfino quello troppo verboso e troppo loquace.
Dalle allegationes degli avvocati vanno tenuti distinti i consilia dati nel corso delle liti dai giuristi di professione. La prima forma di consulenza a venire in considerazione è il consilium sapientis: istituto di origine consuetudinaria, come documentato dallo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante (1270), esso rappresenta il parere che negli ordinamenti comunali i giudici solevano domandare al giurista dotto per la definizione della causa. Professionisti della politica ma non altrettanto del diritto, consoli e podestà si rivolgevano dunque al sapiente (studioso indipendente che non sedeva a lato del magistrato) e riproducevano poi nella sentenza il consilium da lui ricevuto che garantiva così la giuridicità della decisione.
Nell’ambito della sententia secundum consilium va dunque sottolineata la perfetta separazione tra essenza (sostanza), formulata dal sapiens, ed esistenza (forma), posta autoritativamente dal giudice.
Ampiamente diffuso fino a tutto il ’500, il consilium sapientis iudiciale si avviò progressivamente al declino nel secolo successivo con l’affermarsi negli stati assoluti dell’autorevole e prestigiosa giurisprudenza dei Grandi Tribunali, formati da giuristi dotti e funzionanti secondo la regola "iura novit curia"; una residua vitalità fino a tutto il Settecento si mantenne in ogni caso presso le corti inferiori, per quanto i consilia tendessero a subordinarsi agli orientamenti giurisprudenziali dei tribunali supremi che potevano riformare in appello la sentenza che da quegli orientamenti si discostasse.
L’altro tipo di giurisprudenza consulente è rappresentato dai consilia elaborati su richiesta della parte desiderosa di produrli al giudice come elemento di convinzione. L’uso dei giureconsulti di dare pareri scritti anche alle parti si afferma soprattutto a partire dal Trecento, in seguito all’aumento della litigiosità, dovuto al tramonto del sistema feudale e all’incremento delle ricchezze, e in seguito al sempre più pressante bisogno di orientamento dei litiganti nella selva delle norme giuridiche e delle interpretazioni dottrinali.
I consilia pro parte rappresentano qualcosa di diverso e di qualitativamente superiore rispetto alle memorie difensive degli avvocati (le allegationes) che venivano ad integrare: emessi essenzialmente pro veritate (da cui la denominazione), erano tendenzialmente caratterizzati da una maggiore oggettività ed imparzialità di valutazione della lite.
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Il giudice cui il consiglio era direttamente o indirettamente rivolto voleva essere informato, più che dell’opinione personale del consulente, del diritto da applicare che, in un sistema di diritto giurisprudenziale, era essenzialmente rappresentato dalle interpretazioni dei giuristi; insomma, il parere rivestiva tanta più importanza agli occhi del magistrato quanto più poggiava su numerose e accreditate opinioni simili, che il consulente ricercava nelle opere della dottrina del diritto comune e tra le raccolte di consilia esistenti. Di qui dunque l’abitudine dei consulenti di ricercare sui singoli punti di diritto la coincidenza di opinioni delle maggiori autorità, considerando determinante tale circostanza.
Pur implicando la rinuncia all’indipendenza e alla creatività del singolo giurista, la communis opinio si presentava come il necessario prodotto del bisogno di certezza in un sistema giuridico in cui la legge era insufficiente, la dottrina universitaria tendeva alla ripetizione di insegnamenti ormai vecchi e superati e dunque il ruolo di guida all’interno del sistema giuridico veniva ad essere assunto dal giurista pratico (il forense).
LA PROCEDURA SOMMARIA
La legislazione pontificia, fin dal XII secolo aveva cercato di semplificare, nelle curie ecclesiastiche, le formalità procedurali e di abbreviare la lunghezza dei processi, soprattutto nelle cause beneficiali (relative alla distribuzione delle cariche ecclesiastiche e dei relativi patrimoni tra i membri del clero) la cui natura particolarmente delicata richiedeva una maggiore speditezza. Questa innovativa normativa ecclesiastica raggiunse l’importante risultato di avvicinare al processo sommario anche la dottrina civilistica, in origine comprensibilmente legata al rigoroso dettato delle norme romanistiche sui tempi del rito ordinario.
La Chiesa, infatti, dagli inizi del secondo millennio, si era trovata ad essere titolare di una larga proprietà fondiaria che venne a costituire, in breve tempo, la base di continui litigi, che trovavano la loro origine nell’intricata materia dei conferimenti ai chierici degli uffici ecclesiastici e dei relativi patrimoni. Divenne quindi di primaria importanza iniziare a risolvere queste vertenze con una procedura più sollecita e semplificata, senza però sacrificare la piena cognizione delle liti.
I pontefici, dunque, cominciarono a prescrivere ai vescovi investiti della funzione di giudici ecclesiastici nelle rispettive diocesi di procedere summarie, de plano, sine strepitu e sine figura iudicii, quando ci fosse il consenso di entrambe le parti: in particolare con l’espressione summarie si intendeva la riduzione dei termini; de plano significava facoltà di ascoltare le parti anche nei giorni festivi e addirittura di notte; sine strepitu alludeva alla limitazione dei testimoni e delle perorazioni degli avvocati, e infine sine figura iudicii comportava la soppressione delle formalità.
Papa Clemente V (1305-1314), con la famosa costituzione Dispendiosam del 1312 (Clem. 2.1.2), riconobbe ai giudici la possibilità di optare per il rito abbreviato per le cause di diritto matrimoniale e beneficiale, indipendentemente dalla richiesta delle parti, ed estese il procedimento sommario anche alle cause in appello.
Veniva in questo modo riformato il sistema processuale formale e solenne, con una notevole semplificazione delle procedure: si conservavano gli atti e le solennità che avevano valore sostanziale ed irrinunciabile e si omettevano le mere formalità. La concreta applicazione di queste disposizioni era comunque, come è evidente, rimessa in buona sostanza all'arbitrio del giudice.
Nell'ambito del processo sommario un favore particolare era accordato alle cause possessorie.
La parte che aveva subito lo spoglio di un bene, secondo le regole processualistiche di origine romanistica, agiva in giudizio intentando contemporaneamente il giudizio petitorio, volto ad accertare la titolarità del diritto di proprietà, e il giudizio possessorio, rivolto all’accertamento della spettanza del possesso del bene. In questo contesto, nel diritto intermedio, si riconosceva all’attore il privilegio di sospendere il giudizio petitorio e proseguire il solo giudizio possessorio con le modalità del rito sommario, al fine di ottenere una rapida reintegrazione nel possesso del bene sottrattogli, senza entrare, momentaneamente, nel merito del diritto di proprietà. Si voleva così ovviare alla lunghezza del giudizio ordinario e procedere e senza ritardi alla difesa del possesso, attraverso la prova del possesso originario e dell’avvenuto spossessamento, per conservare, almeno provvisoriamente, la condizione iniziale delle parti, in vista del successivo accertamento della spettanza del diritto di proprietà.
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Ulteriore peculiarità del giudizio possessorio era che la reintegrazione del possesso avveniva anche attraverso prove del possesso e dello spoglio normalmente ritenute incomplete, come la testimonianza de auditu (di aver cioè sentito dire da altri, normalmente prova insufficiente, a differenza della testimonianza de visu, cioè oculare) e la notorietà. Viceversa, se risultava evidente la mancanza del diritto in capo allo spogliato, il bene non veniva restituito, anche qualora fosse stato appurato che nemmeno il convenuto era proprietario della res litigiosa.
LA SENTENZA
Terminati tutti gli atti processuali delle parti ed esauriti tutti i mezzi di prova, veniva richiesta al giudice dai contendenti - o da uno di essi - la conclusio in causa.
La conclusione era un atto formale, dato per iscritto, che importava il divieto per le parti di presentare nuove prove e nuove allegazioni, con la richiesta del quale si sollecitava al magistrato la pronuncia della sentenza definitiva.
La prassi finì tuttavia col permettere, anche dopo la conclusione, non solo le semplici informazioni, ma pure la produzione di nuove prove fino alla citazione delle parti ad audiendam sententiam: si voleva, dunque, favorire senza riserve il pieno accertamento della verità dei fatti, anche in extremis, attraverso l’esibizione di documenti appena scoperti, confessioni inizialmente non prestate e deposizioni di testimoni prima ignoti.
La sentenza definitiva, se pronunciata dal giudice secondo le formule di rito, costituiva la decisione giudiziale della res litigiosa e metteva fine al processo.
Primo obbligo del giudice era di pronunciarsi entro il termine prestabilito a partire dal conclusum in causa, in genere fissato dalle norme locali a 10 giorni.
Le solennità richieste per la sentenza, la cui inosservanza determinava la nullità dell'atto, erano in gran parte quelle di diritto romano e consistevano nella forma scritta, nella lettura pubblica in presenza delle parti regolarmente citate ad audiendam sententiam e nella pubblicazione.
Quanto al contenuto, l'atto di chiusura del giudizio, di estrema brevità e semplicità, doveva riportare il nome del giudice e delle parti, esprimere in sintesi le fasi del processo ("viso libello", "testibus et positionibus visis" etc.) e contenere il dispositivo, cioè l’accoglimento o il rigetto della domanda dell’attore così come formulata nel libello introduttivo della lite. Non era richiesta la motivazione della pronuncia.
A pena di nullità della sentenza, le parti dovevano essere citate ad audiendam sententiam con indicazione del termine perentorio nel quale presentarsi, con la consueta formalità delle tre citazioni consecutive compiute dal messo del tribunale, a seconda dei casi, ad personam, ad domum e per edictum (v. supra).
Accanto alle sentenze definitive vi erano poi quelle interlocutorie che si pronunciavano su presupposti processuali (competenza del giudice, revoca di un attentato etc…) o su questioni di merito incidentali, non dedotte nella domanda dell'attore né nelle risposte del convenuto (ad es. assegnazione degli alimenti in via provvisoria in cause dotali o di accertamento della paternità). Tali pronunce erano sempre appellabili ed avevano in certi casi l'efficacia di sentenze definitive, ponendo fine alla vertenza, come avveniva ad esempio per le sentenze dichiarative dell’incompetenza del giudice.
Le norme e la dottrina di diritto comune esigevano per le interlocutorie forme e solennità minori rispetto alle sentenze definitive, non reputando necessarie né la scrittura né la citazione delle parti; siffatte sentenze, però, non potevano essere pronunciate in giorni festivi (a differenza delle sentenze definitive), in quanto tappa intermedia del processo che, secondo il rito ordinario, non si poteva svolgere in giorni festivi.
Alle sentenze che avessero percorso tutti e tre i gradi di giudizio, o per le quali fossero inutilmente decorsi i termini 'fatali' (perentori) per l’impugnazione, era riconosciuta l'efficacia di res iudicata che impediva ulteriori contestazioni sulla stessa cosa e tra le stesse persone.
Il concetto di cosa giudicata non richiedeva un intervento ad hoc ma operava automaticamente in presenza di una tripla sentenza conforme.
E' evidente che la res iudicata, dando vita ad una presunzione di verità, mirava a dare stabilità e certezza ai diritti dei privati, attribuendo carattere irrevocabile ad una pronuncia pur difettosa nelle forme o falsa nel merito. Si garantiva in questo modo alla sentenza passata in giudicato la forza di creare una verità
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formale, vale a dire una situazione giuridica incontestabile che veniva tutelata contro ogni tentativo di ulteriore impugnazione.
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA
La motivazione della sentenza non era obbligatoria nel processo romano-canonico e per tutta l’età medievale la si incontra pressoché esclusivamente nella prassi della Rota Romana. Le leggi e la dottrina, infatti, non la richiedevano, e sarebbe stato pericoloso per il giudice formularla ugualmente poiché la sentenza avrebbe potuto essere dichiarata nulla se la motivazione fosse stata trovata falsa o erronea; pertanto i giudici scelsero, per lo più, di non motivare le proprie pronunce sia nelle cause civili che – con conseguenze ancora più devastanti per le più gravi implicazioni - in quelle criminali.
L’obbligo della motivazione, strenuamente sostenuto dalla dottrina illuministica settecentesca per liberare le parti dall’arbitrio dei giudici e sottoporre questi ultimi a controllo e alle conseguenti responsabilità, verrà introdotto nelle legislazioni italiane e più in generale europee a partire dalle moderne codificazioni ottocentesche.
L'APPELLO
Tipico rimedio ammesso contro le pronunce giudiziali era, allora come ora, il reclamo al giudice superiore tramite appello. Si trattava sia di un mezzo di adizione del supremo tribunale contro sentenze di primo grado delle autorità giurisdizionali inferiori, sia di un mezzo di riesame di vertenze già giudicate in secondo grado presso l’alta corte di giustizia, per le quali era tuttavia prevista l’impugnazione davanti a giudici diversi dello stesso supremo organo giudiziario per un’ulteriore istanza di giudizio: soltanto infatti di fronte a tre sentenze conformi la lite poteva considerarsi veramente conclusa.
L'appello, che poteva essere proposto in ogni causa e contro qualsiasi sentenza, era diritto di tutti, e non solo del soccombente ma anche del terzo che provasse il suo interesse e il danno a lui derivato dalla pronuncia che veniva impugnata.
Persino il contumace, secondo la dottrina prevalente, poteva ricorrere al giudice d'appello, purché si trattasse di ficte contumax, cioè di soggetto citato non personaliter bensì ad domum o per edictum e non comparso in giudizio: poiché la citazione non gli era stata intimata di persona, non gli si imputava la colpa di non essersi presentato in giudizio. Questi poteva dunque ricorrere al giudice superiore entro il termine di dieci giorni previsto dal diritto comune, che per lui decorreva, però, non dal momento della lettura della sentenza (alla quale non aveva assistito) ma dal momento della sua conoscenza; restavano comunque validi gli atti esecutivi nel frattempo intrapresi, decorsi dieci giorni dalla pronuncia della sentenza.
L'appello andava presentato al giudice di primo grado nel termine romano di dieci giorni dalla pronuncia della sentenza, accolto anche nel processo canonico: si trattava del decedium appellationis previsto da una Novella di Giustiniano (Nov. 23, c. 1), seguito anche nelle curie ecclesiastiche e confermato dalla dottrina processualistica sia civile che canonica.
Ricevuto l'appello, il giudice a quo era obbligato a rilasciare, su richiesta della parte soccombente, i c.d. apostoli (in greco "inviati"), o litterae dimissoriae, con cui inviava al giudice superiore la richiesta di riesaminare la causa, insieme con la sentenza e tutti gli atti del processo.
Dati gli apostoli, il giudice a quo assegnava all'appellante un termine ad prosequendam appellationem entro cui raggiungere il tribunale superiore e introdurre la causa davanti al giudice dell'appello.
Il magistrato d’appello, ricevuti gli apostoli, ordinava al giudice inferiore di sospendere la prosecuzione del giudizio e tutti gli atti di esecuzione della prima sentenza (atto denominato inhibitio), in attesa della nuova pronuncia: ogni atto compiuto dal primo giudice sarebbe stato pertanto revocato quale attentato alla litispendentia davanti al secondo magistrato. Si richiedeva, per la validità dell'inibizione, la citazione della controparte.
Il giudice ad quem, a questo punto, aperti gli apostoli contenenti gli atti processuali e la sentenza, e riconosciuta la regolarità della sua adizione, notificava l'appello alla controparte (appellato), con le consuete
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formalità previste per l'atto di citazione e nel termine di un mese prescritto dalla clementina Causam alla rubrica De electione.
Introdotta la causa, il giudice superiore riesaminava la controversia, generalmente con rito sommario, senza libello e senza contestazione della lite.
Davanti al secondo giudice era ammessa la deduzione di nuovi mezzi di prova non presentati in primo grado, come previsto dal diritto canonico e sostenuto con decisione anche dalla dottrina. Si riguardava infatti l'appello come un nuovo processo in cui i litiganti erano abilitati a proporre ulteriori riscontri oggettivi.
Il processo d’appello doveva concludersi entro pochi giorni, secondo quanto prevedevano le norme statutarie, mentre il diritto romano fissava il limite di un anno per la conclusione del giudizio d’appello e il diritto canonico accordava addirittura un intero biennio.
Si ammetteva peraltro, contro il decorso dei termini 'fatali', la restitutio in integrum ad appellandum.
LA QUERELA DI NULLITA'
Accanto all'appello, vi era, tra le forme di opposizione alla sentenza, la quaerela nullitatis.
Il rimedio della querela, già in parte elaborato dal diritto romano ma perfezionato nell'età di mezzo soprattutto dalla scienza canonistica, veniva utilizzato nei confronti di quelle pronunce talmente viziate nella forma che ad esse si arrivava persino ad escludere l'efficacia di sentenze, per la presenza di errori macroscopici nell'applicazione della legge o di difetti per solennità non osservate.
Si distingueva in sostanza nel processo romano-canonico tra ingiustizia e nullità del giudicato, tra error in iudicando e error in procedendo, e si provvedeva al primo con l'appello e al secondo con la quaerela nullitatis.
Rendeva la pronuncia nulla, secondo il diritto comune, la palese violazione e la palesemente falsa interpretazione delle leggi, e gli errores in procedendo, quali ad esempio il difetto di competenza del giudice, la mancanza della citazione, l'illegalità della procura, la non stesura per iscritto della sentenza o la sua pronuncia fuori dai termini processuali, nonché la corruzione dell'organo giudicante.
Il giudizio sulla nullità veniva proposto al giudice di secondo grado, il quale poteva quindi annullare la sentenza e sostituirla con una nuova pronuncia. La quaerela nullitatis poteva persino essere deferita assieme all'appello, poiché era ammesso il cumulo dei due rimedi secondo la comune opinione dottrinale recepita anche dalle norme statutarie; in tal caso il giudice prima decideva sulla nullità e poi, in caso di pronuncia che escludeva la nullità, esaminava l’eventuale iniquità.
La querela, pur essendo perpetua e non sottoposta a termini, si poteva tuttavia presentare una sola volta: la sentenza resa in proposito era infatti definitiva e contro di essa era precluso ogni altro ricorso e rimedio.
GLI ALTRI RIMEDI CONTRO LE SENTENZE
Contro le sentenze era esperibile anche la restitutio in integrum, rimedio straordinario cui si ricorreva solo quando non era più possibile l’esercizio dell'appello per il raggiungimento della res iudicata. Costituiva giusto titolo per chiedere la restituzione il ritrovamento di nuove prove, testimoniali o documentali, inizialmente ignote alla parte soccombente, da indicare pertanto nell'atto introduttivo della causa come elementi utili da far valere contro la sentenza passata in giudicato; doveva trattarsi di argomenti rilevanti, tali cioè che, se utilizzati tempestivamente, avrebbero determinato fin dall’inizio una pronuncia diversa.
Vi era poi il rimedio della supplicatio, forma di ricorso al principe contro sentenza divenuta inappellabile, che differiva dall’appello per il maggior tempo dato per presentarlo, di due anni dalla sentenza definitiva, e per il suo carattere di rimedio straordinario di grazia, dipendente dalla benignità del sovrano.
Anche la revocazione era un mezzo straordinario di impugnazione delle sentenze che i giuristi giustificarono sulla base di norme sia romane che canoniche. La finalità era quella di ottenere una riforma della sentenza di primo grado da parte del medesimo giudice che l’aveva pronunciata. Tale revocatio era ammessa se il giudice fosse stato tratto in inganno da uno dei litiganti o avesse giudicato sulla base di documenti scoperti come falsi dopo la sentenza o nel caso di documenti ignorati dalla parte soccombente o prima non producibili per difficoltà oggettive.
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IL PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE FORZATA
Fin dall’altomedioevo, anche nei periodi di maggiore indebolimento dei poteri pubblici, i vertici istituzionali non abbandonarono mai del tutto all’azione del privato, vincitore in sede processuale, la realizzazione del diritto consacrato nella sentenza divenuta cosa giudicata, ma intervennero direttamente con mezzi di coazione contro la resistenza che eventualmente opponeva il soccombente. In tutti i periodi di civiltà e presso tutti i popoli si avvertì in sostanza che, senza esecuzione forzata, la legge sarebbe stata inutile e la giustizia una parola vuota di significato.
A partire dall’XI secolo i giudici comunali assunsero il compito di portare ad esecuzione le proprie sentenze. L’esecuzione presupponeva però uno stadio di perfezione nell’organismo politico e una acquisita autorità da parte del potere centrale che solo lentamente conseguirono i comuni dell’Italia centro-settentrionale e le monarchie del Mezzogiorno. Inizialmente, nei primi tempi del comune, si faceva ricorso, per l’esecuzione delle sentenze civili, ai mezzi adoperati contro la criminalità, cioè il bando e la confisca dei beni: si puniva così la persona per l’offesa all’ordine del giudice di dare esecuzione alla sua pronuncia, offesa equiparata ad un reato. Appena però venne raggiunto un regolare assetto, i comuni si dedicarono in modo specifico alla disciplina dell’esecuzione forzata delle sentenze civili, per rispondere alle esigenze di una più elevata civiltà e alle più complesse relazioni giuridiche dipendenti dall’esercizio di attività economiche: si imponeva in sostanza la realizzazione di misure per rendere sicuri e spediti i diritti dei creditori.
Ancora nel XII secolo l’esecuzione privata sulla persona e sui beni del debitore, di marca germanica, non era del tutto scomparsa. Pertanto, il debitore che non pagava il suo debito riconosciuto da regolare sentenza di condanna veniva consegnato dagli organi pubblici al creditore che poteva o adibirlo al compimento di prestazioni di lavoro presso di sè per estinguere le sue obbligazioni, oppure togliergli la libertà, facendolo chiudere in carcere; se poi il debitore inadempiente fuggiva dalle carceri, il comune rispondeva del debito al creditore, per la negligenza manifestata nella custodia del carcerato. Questa prassi era prevista dagli statuti e ammessa anche dalla dottrina, sia nei riguardi dei debitori forestieri, che nei confronti dei concittadini.
Altra alternativa per i creditori rimasti insoddisfatti dopo la condanna definitiva era l’occupazione dei beni del debitore insolvente che venivano così presi in pegno. Ciò era spesso consentito anche da specifiche clausole inserite nei contratti, con le quali il debitore autorizzava il creditore a pignorargli i beni, esercitando così nei suoi riguardi un’esecuzione reale: era questo il pactum de ingredienda possessione - conosciuto anche dal diritto romano - inserito, secondo lo stile notarile di redazione dei documenti, nei contratti da cui nascevano obbligazioni a carico di una sola parte; in tal caso non era neppure richiesto uno specifico provvedimento del giudice che autorizzasse l’esecuzione forzata, che si definiva pertanto come esecuzione convenzionale, ovvero stabilita con pattuizione tra le due parti al momento stesso della stipula del contratto.
Tali strumenti di esecuzione erano residui di una pericolosa autogiustizia e contrastavano con quei principi di ordine e di autorità che il comune cittadino voleva attuare, nel senso che l’esercizio della giustizia nella sua interezza, inclusa l’esecuzione delle sentenze, fosse di esclusiva competenza dei consoli o del podestà; gli uni e gli altri al momento dell’assunzione della carica giuravano infatti di assistere i titolari di diritti soggettivi e di impedire che i privati o per arbitrio o per patto scavalcassero l’autorità pubblica e ricorressero alla giustizia privata. Nel comune dunque, in linea di principio, i poteri di esecuzione erano esclusivamente nelle mani del giudice che agiva in nome dei suoi diritti giurisdizionali; col tempo si affermò pertanto il principio che il creditore, con le sole clausole convenzionali, nulla potesse fare di propria autorità, ma dovesse ottenere dal giudice un provvedimento ad hoc e avvalersi dell’aiuto degli ufficiali del comune al fine di ottenere sequestro, immissione in possesso o arresto del debitore.
Numerosi statuti minacciavano dunque pene a chi effettuava pignoramenti di propria autorità sui beni del debitore, ma l’ordine esplicito, contenuto nelle legislazioni municipali, di non procedere all’esecuzione senza licenza del giudice induce a ritenere che ancora in pieno Trecento e Quattrocento i creditori avessero più fiducia nelle proprie forze che in quelle dei pubblici poteri. A questi ultimi non mancava certo la volontà di sostituire ad un sistema di giustizia privata un razionale apparato di intervento esecutivo nelle mani dei funzionari pubblici, ma questa volontà era tuttavia contrastata dalle abitudini alla violenza dei contemporanei e dalla lentezza degli stessi ordinamenti giudiziari, spesso insufficienti e talvolta anche privi di mezzi efficaci
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per portare ad esecuzione le sentenze definitive; lo stesso Baldo giustificava l’espediente della cattura privata con la mancanza di giudici.
Di fronte a queste difficoltà oggettive si comprendono pertanto quegli statuti che, accostandosi maggiormente alla realtà dei fatti, ancora nel XV secolo, ammettevano l’esecuzione convenzionale, che aveva altresì l’approvazione della migliore dottrina processualistica: ne parlano Paolo di Castro, Alessandro Tartagni, Raffaele Fulgosio, Giason del Maino, il procedurista napoletano Roberto Maranta, e Matteo degli Afflitti ne attesta l’osservanza consuetudinaria nel Regno di Napoli in età aragonese. Per tutto quel secolo e per il successivo il pactum de ingredienda possessione è giustificato dai giuristi più accreditati e dai consulenti che distinguevano così tra patto sulla persona e patto sui beni: il primo, finalizzato ad ottenere la cattura del debitore da parte del creditore, non era ammesso perché - si argomentava - gli uomini non possono validamente pattuire sulla propria persona e la cattura spetta ai soli pubblici poteri; il secondo era al contrario pacificamente riconosciuto, anche per l’accoglimento che ne aveva fatto il diritto romano.
Questa esecuzione privata poteva essere condotta sia sui beni immobili sia, persino con maggiore estensione, sui beni mobili, inclusi gli animali; le leggi riconoscevano questa facoltà di pignoramento dei beni mobili soprattutto al proprietario di terre o di case contro i coloni o gli inquilini inadempienti nel pagamento dei canoni di locazione o delle pensioni di affitto.
La pratica dell’esecuzione convenzionale continuò per tutto il XVII e parte del XVIII secolo sia nell’Italia settentrionale che nei regni di Napoli e di Sicilia, dopodiché esso scomparve dalle opere processualistiche settecentesche, per le quali tutti gli atti esecutivi erano oramai di competenza della sola autorità giudiziaria.
La legislazione statutaria era poi unanime nel permettere che chi veniva danneggiato dal pascolo abusivo sulle sue terre potesse trattenere gli animali che trovava nel fondo, al fine di venire indennizzato dal colpevole attraverso il pagamento di un’ammenda e il risarcimento dei danni; ciò era previsto in particolare in Piemonte, Sardegna e Sicilia, ma anche nelle città lombardo-venete.
Altra forma di tutela dei diritti si realizzava nelle città maggiori, caratterizzate da una più vivace attività economica e da un maggior movimento di affari, consistente nell’accordare al creditore un diritto di controllo sul debitore, nel caso di sospettata dilapidazione del patrimonio o di temuta fuga, quando non si era ragionevolmente sicuri dell’adempimento di un credito pur non ancora giunto a scadenza.
Nei confronti del debitore forestiero, gli statuti prevedevano che il giudice consentisse al creditore che ne facesse richiesta l’intromissio de omnibus rebus debitorum (pignoramento dei beni del debitore straniero presenti nel territorio del comune), oppure ammettevano il pagamento di cauzioni a garanzia del futuro adempimento del debito. Le città italiane, centri di vita commerciale, studiarono così espedienti per non chiudere le porte ai forestieri, ma nello stesso tempo impedire che questi, con la fuga, danneggiassero i creditori cittadini. Come estrema misura, se lo straniero si sottraeva all’adempimento con la fuga, il creditore poteva ottenere dal giudice le lettere di rappresaglia e procedere contro i beni dei concittadini del fuggiasco presenti nel territorio del comune, solo però dopo sentenza di condanna passata in giudicato.
Quanto alle misure cautelari contro lo stesso cittadino debitore, sempre qualora si temesse l’insolvenza o la fuga, le norme statutarie e la dottrina mostrano quanto stessero a cuore alle città italiane gli interessi dei creditori, nell’ambito della nascente economia capitalistica che richiedeva precise garanzie per assicurarsi vitalità, sviluppo e crescita. Negli statuti era pertanto frequente la disposizione che riconosceva al creditore la facoltà di richiedere al magistrato un praeceptum intrandi et capiendi relativo ai beni del debitore che venivano pignorati senza alcuna cognizione di causa da parte del giudice, quando vi era il sospetto di insolvenza o di fuga del debitore; si esigeva però per lo più il giuramento del creditore circa l’esistenza del suo titolo di credito e il sospetto di fuga o inadempimento del debitore, ovvero la testimonianza di due o tre persone degne di fede disposte a deporre sul sospetto di inadempienza o di fuga.
Tali misure conservative, di esecuzione preventiva, poste in atto prima della scadenza del credito, erano adoperate specialmente nelle curie mercantili. Il commercio e il capitalismo italiano nei suoi primi albori esigevano infatti forme di protezione contro il debitore sospettato di fuga o di dilapidazione del patrimonio, che le leggi subito accordarono e che la stessa dottrina riconobbe come necessarie e giuste. La scienza giuridica, tuttavia, non trovando nel diritto romano quanto occorreva per giustificare la missio in
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possessionem o la sequetratio senza regolare giudizio e sentenza, fu pertanto costretta a dare ai testi interpretazioni più ampie e a volte persino forzate.
Il fuggitivo era dunque equiparato all’insolvente e, se commerciante, era trattato come bancarottiere, procedendosi così anche contro i suoi familiari e parenti, obbligati in solido all’adempimento dei suoi debiti. La fuga del commerciante era pertanto reputata una forma di fallimento con la conseguente necessità di recuperare i beni alienati in precedenza; si trattava però di un procedimento delicato, cosicchè si raccomandava al giudice di procedere con cautela all’arresto preventivo per non privare ingiustamente il debitore della sua onorabilità; in ogni caso bisognava far precedere all’esecuzione personale la preventiva esecuzione reale con sequestro dei beni del sospettato. L’opposizione del debitore apriva il giudizio di merito nel quale si accertava il credito in vista del finale adempimento del debito.
Si consentiva al creditore anche un altro rapido espediente per ricordare al debitore, prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento, gli obblighi assunti ed invitarlo ad adempierli: si trattava della richiesta rivolta dal creditore al giudice perché emettesse invito al debitore di pagare o di fare opposizione, in base alla sola affermazione del creditore dell’esistenza di un diritto di credito. Questo praeceptum executivum sine cognitione causae (appunto perché veniva concesso sulla base della sola richiesta del creditore) fu introdotto nella pratica italiana, nell’ipotesi in cui risultasse abbastanza chiara la favorevole situazione economica della controparte che rendeva ingiustificati atti preventivi di esecuzione; ci si limitava così ad ammonire l’obbligato, ad invitarlo a pagare o a fare opposizione, nel quale ultimo caso si dava inizio al giudizio di merito sull’effettiva spettanza del diritto di credito in capo al sedicente creditore.
I contraenti potevano poi inserire nei loro contratti conclusi davanti ad un notaio il c.d. praeceptum o mandatum de solvendo executivum, che comportava per il debitore l’obbligo dell’adempimento entro un certo termine, in mancanza del quale il creditore era autorizzato a ricorrere all’esecuzione forzata sui beni dell’obbligato senza richiedere un nuovo precetto al giudice. Il precetto notarile veniva così riguardato come un titolo immediatamente esecutivo, su istanza dell’interessato che si rivolgeva ai pubblici ufficiali per ottenerne l’esecuzione immediata alla scadenza del termine indicato, senza che fossero necessari ulteriori accertamenti.
Il fatto che nella prassi procedurale dell’età intermedia gli strumenti notarili avessero acquistato il valore proprio delle sentenze si spiega col carattere di pubblici ufficiali attribuito ai notai fin dagli ultimi tempi dell’impero romano, che si mantenne anche nei regni romano-germanici. Nel XII secolo l’autorità dei notai era pienamente riconosciuta in tutto il territtorio italiano, tanto da attribuirsi loro la qualifica di iudices cartularii e da equiparare i loro atti alle confessioni giudiziali raccolte dai giudici ordinari in sede di contenzioso.
Tale sviluppo dell’attività notarile ebbe inizio in Toscana, e non a caso, date le peculiarità dell’attività economica della società mercantile toscana che conobbe precocemente le esigenze di un’economia capitalistica e i vantaggi derivanti dallo svolgimento di proficue attività commerciali; essa era per contro avversa alle lungaggini delle procedure giudiziarie e dunque incoraggiata ad investire i notai della stessa autorità delle magistrature giudicanti e a permettere che i loro atti valessero come res iudicata, ottenendo così immediata esecuzione.
Dalla prassi toscana questo modo di considerare i notai e il loro operato divenne rapidamente comune a tutta Italia: la confessione di un debito resa davanti al notaio era reputata pertanto pubblica e solenne e acquistava efficacia di giudicato a garanzia del creditore che si trovava in possesso di un titolo immediatamente esecutivo. Alla presentazione del documento alla scadenza, restava al magistrato solo l’obbligo di vendere i beni del debitore e consegnarne il ricavato al creditore fino al raggiungimento della somma a lui dovuta, oppure assegnare i beni direttamente al creditore, in assenza di compratori. Da tutto ciò la professione notarile uscì notevolmente valorizzata, vedendo attribuita ai suoi atti la stessa efficacia esecutiva delle sentenze.
Addirittura in Toscana e in qualche altra regione, come ad esempio in Lombardia, dove i notai godevano di una particolare reputazione, non era neppure necessario l’intervento del tribunale per dare attuazione ai loro strumenti, bastando la semplice esecuzione interamente privata del creditore; questo intervento, richiesto invece senza eccezioni dalla dottrina processualistica, era imprescindibile soprattutto
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negli ordinamenti retti da monarchie, come il Piemonte, lo Stato pontificio, la Sardegna e i regni di Napoli e Sicilia.
Per quanto invece concerne l’esecuzione di autorità, è indubbio che la volontà del governo comunale di riservare a sè l’attuazione delle sentenze risulta già dai più antichi statuti. Nel giuramento che pronunciavano i consoli al momento dell’assunzione della carica essi si obbligavano, tra l’altro, ad assistere i vincitori dei giudizi anche con l’uso della forza. Nella pratica però la strada da percorrere in questa direzione era ancora lunga, se in pieno XIV secolo si era ben lontani dal rinunciare del tutto all’iniziativa privata in fase di esecuzione dei giudicati, come attesta in termini chiari lo stesso Bartolo: "executio sententiae potest fieri etiam sine executore, quia potest propria auctoritate victor ingredi possessionem et sic ipsemet esse potest executor et nuncius in causa propria". Gli ufficiali pubblici spesso intervenivano solo in caso di resistenza della controparte che si sottraeva all’esecuzione privata.
Malgrado simili tolleranze legate all’insufficienza degli organi deputati a coadiuvare le magistrature nel dare attuazione alle loro pronunce, l’intendimento della legislazione italiana fin dal XIII secolo fu di reazione alle forme di esecuzione privata e di esclusione dell’azione dei privati. L’esecuzione era vista come atto dell’autorità che doveva essere disposto dal giudice ed eseguito dai pubblici ufficiali.
In una prima fase di vita dei comuni l’impiego della forza da parte degli stessi pubblici ufficiali in sede di esecuzione dei giudicati non conosceva limiti di sorta, potendo giungere alla distruzione dei beni dell’inadempientee al bando. Simili mezzi di coazione corrispondevano a quel livello di violenza che dominava tutta la vita sociale, politica e privata tardo-medioevale: come gli odi di parte e di fazione si sfogavano nella distruzione delle case degli avversari, così la pressione del giudice sul debitore si manifestava con analoghi atti di devastazione legittimati dall’autorità pubblica, segnale evidente di impotenza oltre che di inciviltà.
I mezzi di esecuzione delle sentenze civili rivestivano dunque, in una fase iniziale, i caratteri specifici di una condanna penale, cosicché un inadempimento contrattuale accertato con sentenza definitiva acquistava tutto il disvalore di un reato contro la pubblica autorità: davanti al debitore ribelle o fuggiasco la giustizia del comune cittadino si armava per non apparire impotente e inefficace nella sua funzione di tutelare la pace sociale e l’ordine interno.
Tipico rimedio contro il condannato in sede processuale era, di conseguenza, il bando, che consisteva nell’esilio che veniva richiesto dal creditore insoddisfatto che non avesse rinvenuto beni del debitore insolvente coi quali soddisfare il suo credito giudizialmente accertato. Pertanto, contro il debitore privo di beni, il giudice ordinava l’allontanamento dalla città e dal distretto. Mentre chi subiva bando per la commissione di gravi delitti poteva essere ucciso impunemente da chiunque, il bandito per debiti non doveva subire alcuna offesa alla persona, non potendo però ricoprire cariche pubbliche, essere notaio, tutore, curatore, pur non perdendo la capacità di deporre in giudizio come testimone. Il suo nome era generalmente iscritto in uno speciale liber bannitorum finché il debito non veniva pagato.
A Milano il procedimento del bando apparve eccessivo al legislatore, forse per la maggiore vitalità economica che, sia nell’età romana tardo-imperiale che nel medioevo, aveva contraddistinto la città, con la conseguenza che un’applicazione puntuale dell’esilio per debiti avrebbe causato non pochi problemi alla produttività cittadina. Qui si ritenne pertanto sufficiente colpire gli insolventi con la c.d. nota di biasimo (in lingua volgare blasmo), cioè di riprovazione, proveniente dal giudice, che solo in un momento successivo si sarebbe trasformata in bando se il debitore non avesse obbedito all’ordine di pagamento che accompagnava l’atto di biasimo; ci si liberava invece dal blasmo se si pagava quanto indicato nella sentenza di condanna, insieme ad una multa. Il blasmato era privato del diritto di ricevere giustizia, di essere testimone e di ricoprire cariche pubbliche, decadendo da quelle già rivestite. Nella perdurante inadempienza del condannato colpito da nota di biasimo, si procedeva a pignoramento dei beni mobili che venivano assegnati al creditore, fino a concorrenza della somma a lui spettante, e, in mancanza di cose mobili, si disponeva l’immissione nel possesso degli immobili; là dove l’executio realis non era praticabile, si ricorreva come ultima ratio all’arresto personale o, appunto, al bando.
Generalmente, in osservanza di un antico sistema previsto dal diritto romano, in sede di contezioso giudiziario si imponeva alle parti il versamento di un certo numero di cauzioni, somme di denaro a garanzia dell’impegno che veniva con esse assunto di perseverare nel processo iniziato e di rispettare la sentenza. Era
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dunque questo il primo mezzo di coazione, vale a dire il trasferire al vincitore della lite la cauzione del soccombente, che costituiva così il primo e principale oggetto dell’esecuzione.
Chi aveva ottenuto una sentenza di vittoria doveva poi presentarsi davanti al medesimo giudice che l’aveva pronunciata e chiedere che essa fosse mandata ad esecuzione; il giudice intimava così all’avversario di ottemperare a quanto stabilito entro un intervallo di tempo che di solito era fissato dagli statuti a 10 giorni; solo decorso questo termine si procedeva all’esecuzione forzata nelle due forme reale e personale.
L’esecuzione reale era la datio in solutum dei beni del condannato che venivano assegnati al creditore fino al raggiungimento del suo credito ovvero venduti con corresponsione del prezzo alla controparte fino all’estinzione del debito. Essa non si rivolgeva indistintamente a tutti i beni del debitore né si compiva necessariamente in un’unica soluzione: il giudice doveva a questo riguardo regolarsi in base al proprio arbitrio e lasciare al debitore di indicare i beni da dare in solutum, limitandoli comunque allo stretto necessario per evitare un ingiustificato arricchimento del creditore, ed adoperandosi affinché tutta la procedura venisse compiuta senza scandalo e disonore per il condannato: il buon nome e la buona fama di un soggetto avevano nella società dell’età intermedia enorme importanza, equiparandosi addirittura la perdita dell’onore e della dignità alla perdita stessa della vita.
L’esecuzione iniziava sui beni mobili, poi proseguiva sui crediti e infine si concludeva sugli immobili. Riguardo ai beni mobili, vi erano consuetudini secolari che esentavano i beni necessari all’economia familiare ed agraria, in conformità a quanto sancito in materia anche dal diritto romano: così non erano pignorabili le provviste alimentari, gli strumenti di lavoro, il letto, le coperte, i vestiti, gli utensili domestici, gli animali da lavoro e via dicendo. La dottrina si ingegnò a trovare ampliamenti e limitazioni, escludendo dal pignoramento anche le tegole del tetto, le imposte delle finestre, le armi e i cavalli dei soldati, i libri di dottori e studenti. Un sentimento di cortesia voleva poi esentati i doni che la moglie aveva ricevuto il giorno delle nozze.
I mobili che venivano pignorati dovevano essere venduti all’asta, che si svolgeva nella piazza principale, in giorni di mercato, in presenza del pubblico banditore; col prezzo della vendita si pagavano i debiti, le spese giudiziarie e le multe dovute per la mancata esecuzione tempestiva della sentenza.
Se le cose mobili non bastavano a soddisfare il diritto della parte vincitrice, si passava ai titoli di credito, ma prima si invitava il debitore a giurare ad purgationem, se vi era il sospetto che con dolo e malizia avesse nascosto le proprie sostanze per sottrarle al pignoramento: la mancanza o comunque l’insufficienza di libri catastali che rendessero evidenti i beni posseduti da ciascuno nel contesto cittadino rendeva opportuno il ricorso al giuramento.
Nell’esecuzione immobiliare la procedura era più lunga e complessa e iniziava con l’affissione dello stemma pubblico sugli edifici che si intendevano sequestrare, cosicché chi turbava le operazioni incorreva nella confisca di metà delle sue sostanze. Fatto il sequestro si nominava un custode, si citava il debitore e si bandivano le aste col suono della tromba: gli incanti si tenevano di domenica, davanti alla chiesa, all’ora dell’uscita dei fedeli dalla messa, oppure in giorno di mercato. Se l’asta andava a buon fine si corrispondeva il ricavato al creditore; in caso contrario gli si assegnavano in solutum tanti beni quanti erano sufficienti al pagamento del debito e la controparte aveva un anno di tempo per riscattarli, decorso il quale il dominio del creditore diveniva irrevocabile.
Al momento della vendita giudiziaria dei beni del condannato era ammesso il diritto di prelazione in favore dei parenti del debitore insolvente; uguale preferenza era accordata ai condomini, e gli uni e gli altri godevano pure di un diritto di riduzione del prezzo, purché non ne venisse danneggiato il creditore. Dalle aste erano esclusi i forestieri, al fine di conservare le terre e le case nel possesso dei nativi del luogo.
Non erano soggetti ad espropriazione i beni feudali, fedecommissari ed enfiteutici e inoltre i benefici ecclesiastici, dei quali solo le rendite potevano essere assegnate ai creditori.
Nei secoli XV e XVI, grazie ai contributi della dottrina giuridica, all’esperienza maturata e al progresso della civiltà, si raggiunsero notevoli traguardi in direzione della tutela dei creditori ma anche della salvaguardia dei debitori dalla rovina, per impedire che il diritto del creditore fosse indebolito dagli stratagemmi posti in atto dall’avversario al fine di prolungare i tempi dell’esecuzione, e per converso per ridurre al minimo il collasso patrimoniale del debitore.
Prima di procedere alla vendita all’asta dei beni dell’insolvente, veniva compiuta la notifica del pignoramento o del sequestro al condannato che poteva evitare la vendita offrendosi di pagare. Tale offerta
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(oblatio) poteva essere verbale (con assunzione formale dell’impegno di pagare) o reale, cioè cum consignatione (con pagamento di quanto dovuto); la prima aveva l’effetto di impedire il pignoramento, il decorso degli interessi e delle penalità di mora fissate dalla legge, mentre l’offerta reale liberava del tutto il debitore, ma doveva farsi con l’autorità del giudice, in denaro contante. Se il creditore si rifiutava di ricevere il denaro, il debitore lo faceva contare alla presenza di testimoni e deporre in un sacco sigillato che rimaneva presso il debitore o che veniva depositato nella sacrestia della chiesa fino al ritiro da parte dell’avente diritto: spesso infatti i creditori rifiutavano il pagamento per lucrare le pene stabilite per i casi di mora e gli interessi sul denaro dovuto.
Quando non vi erano beni del debitore, il creditore poteva rivalersi sulla sua persona, secondo una pratica ereditata dal mondo romano, il quale faceva in ogni caso riferimento al debitore vivo. Nell’alto-medioevo, invece, vi furono pretese persino sul cadavere del debitore da parte del creditore insoddisfatto che pretendeva di esercitare così una sorta di sequestro giudiziario; tale offesa al morto e alla sua famiglia, di autentica origine barbarica, non era ancora del tutto svanita in pieno Trecento – tanto che ne parlano non solo i novellieri ma anche i commentatori civilisti e canonisti -, e sarebbe stata accolta nella prassi in misura ancora maggiore, se non fosse stata frenata dal timore della peste.
Se non si rispettavano i morti, si può facilmente immaginare quanto e come i creditori inveissero contro il debitore vivo ma insolvente, in una prima fase di vita comunale in cui vi era ancora ampio spazio per la vendetta privata. Per esempio era invalsa nell’uso di molte località italiane la pratica di chiudere dall’esterno le porte delle case dei debitori condannati, impedendo così a chi era dentro di uscire e a chi ne era rimasto fuori di entrare, con danni incalcolabili per le persone che vi abitavano, costrette ad abbandonare le loro case e i loro averi.
Alle vendette private le leggi sostituirono il diritto del creditore di fare incarcerare il debitore insolvente e tale sistema prevalse in Italia e durò fino al 1876, anno di abolizione del carcere per debiti.
In linea di principio la detenzione doveva essere sofferta nelle carceri pubbliche. Tuttavia i comuni, che preferivano in genere infliggere pene corporali e pecuniarie piuttosto che detentive, in pochi casi aprivano le carceri quale luogo di pena, per non aggravare il bilancio dello stato col mantenimento dei carcerati; pertanto, almeno nei primi tempi, non si concedevano le prigioni per la custodia dei debitori i quali rimanevano così in balia dei creditori e dell’esercizio del carcere privato. Questo uso era abbondantemente diffuso soprattutto in Toscana e in Lombardia, fino a tutto il Duecento, cominciandosi solo dal tardo XIII secolo a comminarsi pene contro chi deteneva qualcuno contro la sua volontà, in reazione a consuetudini evidentemente non infrequenti.
Da quel momento le carceri pubbliche si aprirono anche per i debitori, oltre che per i condannati per reati, e l’esecuzione personale divenne competenza esclusiva della pubblica autorità, benché spesso il creditore fosse tenuto ad assumersi le spese di mantenimento del debitore in carcere. Mentre in un primo tempo era facoltà del creditore scegliere tra esecuzione sui beni e esecuzione sulla persona del debitore, tale sistema, osteggiato tanto dai civilisti quanto dai canonisti, in seguito tramontò per dare luogo all’altro del carattere meramente sussidiario dell’arresto, da praticarsi solo in mancanza di beni del debitore. L’arresto veniva così ordinato dal giudice ed eseguito dal messo pubblico dopo che si era constatata la nullatenenza del debitore.
La Chiesa fu invece sempre contraria all’arresto per debiti, non ammettendo che venisse molestata la persona per pretese connesse a beni materiali, sulla base del principio che tutte le ricchezze non valgono quanto la dignità di un essere umano.
L’arresto era vietato per i piccoli debiti e ne andavano esenti i nobili, i dottori, i pubblici funzionari, le donne oneste, i genitori per i debiti dei figli, i minori di 18 anni, gli anziani oltre i 70, i cristiani per un debito contratto con un ebreo. Spesso ai debitori ricercati veniva concesso asilo nei c.d. borghi franchi - terre originariamente feudali che, con l’avvento dei comuni, erano state sciolte da ogni vincolo verso il signore, dichiarate libere e immuni -, oppure nelle città se debitori forestieri.
Non si poteva procedere all’arresto in chiesa, nelle abitazioni private, considerate luoghi inviolabili al pari degli edifici di culto, nei giorni di festa e dopo il suono del coprifuoco.
L’arresto non era inflitto a scopo di pena, ma per costringere il debitore al pagamento, dunque come mezzo di coazione piuttosto che come strumento di punizione; del resto esso andava spesso a tutto vantaggio
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del debitore che si sottraeva così alle molestie anche più gravi minacciate dal creditore. La stessa circostanza che il creditore era tenuto a somministrare il vitto al debitore carcerato conferma il carattere cauzionale di tale detenzione, che gli fu proprio fino a quando l’arresto per debiti non venne definitivamente abolito.
Accanto alle regole comuni in materia di esecuzione personale, vi erano poi le peculiari consuetudini locali, come ad esempio quella fiorentina del "tocco", chiamato dai giuristi tactus o captura verbalis. Il tocco si introdusse nella prassi fiorentina nel 1474 e consisteva nell’incarico dato dal giudice al messo pubblico di toccare appunto con un’asticella il debitore contro cui era stata pronunciata sentenza di condanna, intimandogli di presentarsi in tribunale e di pagare il suo debito. Il tocco faceva dunque le veci dell’arresto; se il debitore ciononostante non si presentava o non pagava, si procedeva alla vera e propria cattura. Si disponeva inoltre negli statuti che i c.d. toccatori non dovessero entrare nelle abitazioni private, reputate luoghi inviolabili al pari delle chiese, mentre potevano recarsi nelle scuole, nelle botteghe, negli alberghi e in generale in tutti i luoghi pubblici. Tale usanza fu abolita nel 1778.
L’avvenuto pagamento, se pure tardivo, liberava in ogni caso il debitore dal carcere, ove comunque non rimaneva mai più di un anno, tempo ridotto a 6 mesi in caso di assoluta povertà. Per porre fine alla carcerazione il debitore non in grado di pagare era tenuto a sottoporsi ad un particolare rituale che consisteva nello spogliarsi dei suoi pochi beni, fino a rimanere coi soli vestiti strettamente necessari. Con la cessio bonorum, di origine romanistica, il debitore si liberava della sue pendenze con una cerimonia pubblica offensiva nei riguardi di chi la subiva e spettacolo ridicolo per il pubblico che assisteva, in cui l’insolvente doveva ‘cedere’ tutto ciò che aveva, dal momento che non era stato in grado di pagare adeguatamente il creditore.
La cessione era un estremo rimedio per i poveri, per sottrarli ad una carcerazione che altrimenti sarebbe stata definitiva, una volta accertato che l’insolvenza era dovuta a cause indipendenti dalla volontà del debitore; per questa ragione non la si accordava ai mercanti falliti, ai giocatori d’azzardo, ai dilapidatori dolosi, ai debitori del fisco, i quali dovevano inesorabilmente subire il carcere.
Il povero che non era dunque in grado di pagare, rispondeva del suo debito rinunciando pubblicamente alla sua dignità, presentandosi quasi nudo (con indosso solo una camicia) e scalzo nella pubblica piazza, esposto alla derisione della cittadinanza convocata col suono delle campane, facendo mostra di sè per un’intera giornata, seduto su di una pietra posta al centro della piazza, costretto a subire gli insulti e la derisione dei presenti. Dopodiché veniva bollato come infame a vita e costretto ad indossare un apposito copricapo, generalmente verde, speciale segno distintivo dei debitori cedenti che se ne liberavano solo pagando il proprio debito al creditore.
Il fine di queste pratiche era di manifestare in modo popolare e chiaramente visibile a tutti chi si era comportato da pessimo debitore, così da indurre i cittadini dal guardarsi dall’instaurare rapporti giuridici con quei soggetti che venivano appositamente segnati con abbigliamenti riconoscibili. E’ certo che alcune espressioni entrate nel linguaggio comune, come ridursi in camicia o ridursi al verde (dal colore dei cappelli che coloro che avevano fatto cessione erano tenuti ad indossare) derivano proprio da queste formalità. Il diritto comunale era del resto piuttosto propenso a fare largo uso di pene ignominiose e infamanti, molto economiche per le casse dello stato e, a quei tempi, di maggiore efficacia dissuasiva rispetto ad altre pene afflittive, data l’elevatissima importanza del buon nome e della dignità personale nella vita sociale dell’epoca.
Era invece di diversa natura il regime punitivo cui veniva sottoposto il commerciante fallito.
Il mercante fallito incorreva fin dai primi tempi del comune in pene particolarmente severe, in considerazione del peculiare rilievo sociale ed economico che rivestiva l’attività commerciale nelle rifiorite realtà cittadine. L’attività mercantile, che veniva esercitata sia nel contesto europeo che in direzione dell’Oriente, era riguardata quasi come un ufficio pubblico, tanto era elevata la reputazione dei mercanti, cui si doveva accompagnare una corrispondente severità nei confronti di chi aveva l’onore di appartenere alle superiori corporazioni dei mercanti e dei banchieri e che, in seguito al fallimento della sua attività, macchiava il buon nome e l’alta considerazione della categoria.
Nacque dunque il procedimento di esecuzione fallimentare, la cui legge comunale più antica è quella senese del 1180.
La severità di tutta la procedura si spiega con l’alto senso di responsabilità che incombeva sul commerciante che doveva possedere sostanze sufficienti per far fronte ai suoi impegni, e sul banchiere che
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