Visualizzazioni totali

Cerca nel blog

lunedì 21 settembre 2009

DIRITTO COMMERCIALE


Dispense su imprenditore, società e fallimento, aggiornate al nuovo testo della legge
fallimentare.
Uno dei profili di più intensa rilevanza dell’aggregato concettuale racchiuso nell’art. 2082
c.civ. concerne, per certo, la tematica della responsabilità derivante all’imprenditore (art. 2082
c.civ.) dall’esercizio di una attività economica, organizzata ed esercitata con connotato di stabilità
(professionalità). L’attività economica, prevista dalla norma definitoria dell’imprenditore è, di
regola, assisa su uno stabile impianto operativo coincidente con la c.d. organizzazione ad impresa
(ancora l’art. 2082 c.civ.) che è costituita dall’assunzione da parte dell’imprenditore ad un processo
produttivo di differenti elementi – capitali, lavoro, beni materiali ed immateriali – tra i quali lo
stesso imprenditore realizza un rapporto di complementarietà economica e funzionale, e dunque un
rapporto coesivo, sulla base della sua energia combinatoria che determina la costituzione
dell’aggregato produttivo.(art.2555 c.civ.)
Siffatto aggregato produttivo, che ha evidenti connotati di non occasionalità, ma piuttosto di
stabilità (professionalità), è capace di generare, sulla base delle proprie dinamiche funzionali, una
molteplicità di operazioni economiche – talune indicate nell’art. 2195 c.civ. ed altre nell’art. 2135
c.civ. – che danno luogo ad un commercio giuridico di massa, intendendo, con tale espressione, la
pluralità dei rapporti giuridici attivi e passivi generati dal compimento delle operazioni economiche
suddette.
Orbene, il regolamento giuridico della suddetta, imponente e pervasiva molteplicità di
rapporti giuridici – che, come detto, promanano da un impianto organizzativo stabilmente costituito
– è caratterizzato da un connotato di particolarissimo rilievo e cioè dalla circostanza che le
attribuzioni patrimoniali attive e passive dell’imprenditore hanno luogo in tempi diversi, sono, cioè
caratterizzate dal principio del c.d. “scambio a credito”, nel senso che, mentre una prestazione viene
eseguita, la controprestazione viene frequentemente differita nel tempo. Si intende come, quando
siffatto connotato si configuri in relazione a rapporti giuridici di massa, quali sono quelli generati
dalle operazioni economiche di imponente rilevanza quantitativa a cagione della loro molteplicità,
si formino due differenti aggregati patrimoniali: uno attivo, a favore dell’imprenditore; concernente
le situazioni giuridiche soggettive di vantaggio ed uno passivo concernente le situazioni giuridiche
soggettive di svantaggio a carico dell’imprenditore. Tra siffatti aggregati – quello attivo e quello
passivo – deve configurarsi un rapporto virtuoso, nel senso che l’imprenditore deve porsi nelle
condizioni di estrarre dall’aggregato attivo le risorse necessarie per soddisfare i fabbisogni
dell’aggregato passivo; ancora si deve osservare che l’imprenditore si adopera per ottenere il
risultato di acquisire un ulteriore margine di ricchezza dell’aggregato attivo, una volta soddisfatti i
fabbisogni di quello passivo: e, siffatto margine costituisce il profitto al cui conseguimento è
orientato lo svolgimento dell’attività di impresa nello schema largamente prevalente di essa che è
quello capitalistico.
Per meglio visualizzare il fenomeno precedentemente delineato, e descritto con insuperabile
acune ed approfondimento da Alfredo Rocco, è agevole ipotizzare l’imprenditore che ottiene
credito dal sistema bancario, dai propri dipendenti che lavorano con un pagamento differito, dai
propri fornitori di impianti e di materia prima o merci per un verso, mentre, per l’altro verso,
acquista crediti verso la propria clientela alla quale fornisce prestazioni con regolamento finanziario
differito e quindi con dilazioni di pagamento.
L’impresa – ogni impresa – fluttua stabilmente tra questi due aggregati contrapposti e cioè
quello passivo relativo alle prestazioni che deve eseguire e quello attivo, relativo alle prestazioni
che deve ricevere: le situazioni, poi, che si generano nell’ambito di tale schema, sono caratterizzate
da fluttuazioni costanti in quanto gli aggregati- quello attivo e quello passivo – sono in continua
modificazione: in un commercio giuridico di massa vengono realizzate numerose prestazioni a
favore dell’imprenditore da parte dei suoi debitori e da parte dell’imprenditore a favore dei propri
creditori, mentre insorgono ulteriori rapporti attivi e passivi che generano modificazioni continue
negli aggregati attivi e passivi tra i quali fluttua l’esercizio dell’impresa.
In relazione alla molteplicità delle situazioni giuridiche innanzi delineate, che trovano il loro
momento baricentrico e la loro genesi nell’esercizio dell’impresa, si pongono delicati, e talora
inquietanti, problemi di tutela giuridica.
Ove, difatti, l’imprenditore non fosse nelle condizioni di soddisfare i fabbisogni finanziari
correlati all’aggregato negativo della sua attività, utilizzando le risorse disponibili attraverso la leva
costituita dall’aggregato positivo neppure rendendo liquido lo stock patrimoniale costituito dai
mezzi propri investiti o dalla capitalizzazione del profitto (o utile) conseguito, si genera una
condizione di crisi ed un grave allarme in quanto la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa in tale
situazione può, da un lato generare legittime attese nei creditori aventi titolo nelle operazioni poste
in essere successivamente al manifestarsi della suddetta criticità e, d’altro lato, può dare luogo al
soddisfacimento di creditori pregressi, mentre le risorse che costituiscono il bacino patrimoniale sul
quale è assiso l’esercizio dell’impresa sono inadeguate a soddisfare le pretese dell’intero ceto
creditorio. La continuazione dell’esercizio dell’impresa nella condizione di squilibrio tra i due
aggregati patrimoniali può, a questo modo, dare luogo a pagamenti preferenziali in favore di taluni
creditori ed all’assunzione di obbligazioni verso altri soggetti in presenza di un bacino patrimoniale
inadeguato a sostenere l’impatto delle linee di credito.
Nell’ipotesi, poi, in cui il patrimonio dell’imprenditore, nella configurazione statica dello
stock ed in quella dinamica dei flussi, sia impotente a soddisfare regolarmente le obbligazioni
contratte, il ciclo virtuoso dell’impresa può dirsi concluso: l’esercizio dell’attività economicaorganizzata,
difatti, da momento generatore di ricchezza riguardata, in quanto tale, con indirizzo di
forte benevolenza dal legislatore, si converte in momento di dissipazione di ricchezza e di
diffusione di criticità nel mercato.
L’imprenditore insolvente, difatti, non potendo adempiere alle obbligazioni contratte
contagia le proprie criticità ai suoi creditori – siano essi finanziari, ovvero di impianto e di fornitura,
e lavoratori dipendenti – i quali, a loro volta, rovesciano detta criticità verso i propri creditori in un
perverso effetto domino denominato “concatenazione dell’insolvenza” che genera una forte
turbativa nel mercato: e così l’impresa, da processo virtuoso di creazione di ricchezza, diviene
repertorio perverso di dissipazione di risorse e di grave turbativa del mercato.
In tale condizione la legge interviene (Art. 5 L.F.) per impedire la prosecuzione di tale
attività attraverso la dichiarazione di fallimento che preclude (di regola) la continuazione
dell’attività ed affida il patrimonio dell’imprenditore debitore ad un ufficio (quello del curatore
fallimentare) che si adopera per ricuperare le risorse illecitamente defluite dal patrimonio
dell’imprenditore verso altri patrimoni in danno della massa dei creditori e procede alla
realizzazione dell’aggregato attivo per ripartirlo, quindi, ai creditori insoddisfatti secondo il canone
della par condicio creditorum che, nel processo di fallimento, acquista una più incisiva intensità
rispetto ai principi generali codificati nell’art. 2740 c.civ.
Ai fini di mobilitare le procedure recuperatorie delle risorse defluite dal patrimonio
dell’imprenditore successivamente al manifestarsi dell’insolvenza, il curatore si avvale delle
scritture contabili (art. 2214 c.civ.), alla cui regolare tenuta è obbligato l’imprenditore anche da
disposizioni di intensa rilevanza penale (la bancarotta fraudolenta documentale), che testimoniano
le sequenze dello svolgimento delle operazioni di impresa e degli atti giuridici ad esse inerenti.
L’obbligo di tenuta delle scritture contabili è preordinato al valore giuridico di stabilire i
risultati economici dell’esercizio dell’impresa (e quindi la formazione di un bilancio), ma anche alla
prospettiva di poter ricostruire in qualsiasi momento le sequenze dello svolgimento dell’attività
onde provvedere al ricupero di quelle risorse che siano defluite altrove dal patrimonio
dell’imprenditore al fine di presidiare il canone fondamentale della par condicio (suum cuique
tribuere),
Si delinea, a questo modo, un disegno di sostanziale circolarità tra l’attività d’impresa, rilevata nella
sua attitudine a generare un commercio giuridico di massa in forza del suo connotato organizzativo
dal quale promana lo svolgimento delle operazioni economiche, i valori del corretto scambio a
credito che postulano l’equilibrio tra l’aggregato patrimoniale attivo formato da stock e da flussi e
l’aggregato passivo costituito da situazioni giuridiche soggettive di svantaggio, la tenuta delle
scritture contabili obbligatorie ove sono riflesse le sequenze dello svolgimento dell’attività, e la
soggezione al fallimento che della responsabilità d’impresa costituisce la manifestazione più
rilevante ed il più emblematico suggello.
2- Una volta descritto, nei suoi profili essenziali e più salienti, il ciclo dell’attività d’impresa e
prospettata la tematica della responsabilità derivante dal suo esercizio, occorre domandarsi chi sia il
soggetto dell’impresa e quindi chi sia quella soggettualità che occupa il luogo assegnato a “… chi
esercita…” nella proposizione definitoria dell’imprenditore contenuta nell’art.2082 c.civ.
La circostanza che l’esercizio dell’attività economica, e quindi il compimento delle operazioni
d’impresa (Art. 2195 c.civ.), si accompagnino indefettibilmente ad un insieme di atti giuridici in
senso stretto, di negozi giuridici e di contratti, conduce a ritenere che il soggetto dell’impresa
corrisponda alla persona nei cui riguardi opera l’imputazione soggettiva degli atti, dei negozi e dei
contratti e quindi al soggetto il cui nome viene speso nel compimento degli atti, dei negozi e dei
contratti. E’, difatti, pacifico che nel nostro ordinamento giuridico l’imputazione soggettiva degli
effetti degli atti, dei negozi e dei contratti abbia luogo nei confronti del soggetto – e quindi della
parte – il cui nome viene speso nel commercio giuridico (art. 1705 c.civ.).
Siffatta, corretta ed unanimemente condivisa conclusione, è esposta, però, a specifiche e
significative criticità in materia di imputazione dell’impresa per effetto di rilevanti episodi
normativi già contenuti nella L.F. del 1942- coeva, come è noto, al codice civile – ed il cui impianto
precettivo si è intensamente rafforzato nel testo novellato della L.F. che si appresta ad entrare in
vigore nel prossimo luglio.
L’art. 147 del nuovo testo, difatti, nel prevedere, su un terreno di sostanziale continuità col
testo previgente, l’estensione del fallimento ai soci la cui esistenza emerga dopo la dichiarazione di
fallimento, e quindi di quei soci che avessero operato come tali, ma in condizioni di clandestinità (i
c.d. soli occulti) sancisce, altresì, che all’effetto dell’estensione del fallimento siano esposti anche i
soci di una società occulta. E’, al riguardo, eloquente il dato normativo che è utile richiamare
testualmente: “Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci
illimitatamente responsabili, il Tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito,
dichiara il fallimento dei medesimi (IV° com., art. 147 L.F.). Allo stesso modo si procede qualora
dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile a
una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile “(Art. 147 L.F. com. V)”
La estensione del fallimento a carico del socio occulto era già prevista dalla L.F. del 1942 –
e non era invece prevista dal cod. di commercio del 1882, che disciplinava la materia fino al 1942 –
ed ubbidiva ad una vigorosa ispirazione sostanzialistica facendo espressamente carico degli effetti
dell’esercizio dell’impresa collettiva anche a quei soci che, celandosi dietro le quinte ed operando
quindi con opacità, erano ignoti ai creditori sociali ed ai terzi i quali, nel concedere credito alla
società, non stimavano nel patrimonio di garanzia costituita in favore dei creditori di impresa (Art.
2291 c.civ.) quel compendio di risorse di cui fosse titolare il socio occulto.
Sotto questo profilo l’estensione del fallimento a carico del socio occulto si convertiva in un
incremento di garanzia per i creditori sociali e dunque per il creditore di impresa, ed in una coeva
contrazione di garanzia per i creditori personali del socio occulto: i primi, difatti, potevano
registrare l’ampliamento dell’area patrimoniale sulla quale soddisfarsi, pur non avendovi riposto
alcuna attesa, mentre i secondi dovevano subire la contrazione dell’area patrimoniale di garanzia
offerta dal proprio debitore, pur avendo concesso credito ad un soggetto che appariva immune dal
rischio derivante dalla partecipazione all’attività di impresa.
Sotto il profilo che è stato testè enunciato, dunque, la partecipazione all’impresa esercitata
attraverso una società personale (limitatamente ai soci illimitatamente responsabili) comporta un
irrobustimento della tutela dei creditori sociali quale conseguenza della esposizione a responsabilità
d’impresa del socio occulto.
La ratio di siffatto singolare ed eccezionale ordito normativo è collegata, secondo una
reputata dottrina, al principio di portata generale che impone una correlazione tra potere di impresa
e responsabilità. E posto che nelle società personali il governo dell’impresa compete a tutti i soci
(art. 2257 c.civ.)- e l’affidamento di esso a taluni soltanto comprime un potere destinato a reitegrarsi
qualora venga meno il suddetto affidamento (morte, revoca del socio amministratore per es)-, ne
discende che tutti i soci, e quindi anche quelli occulti, sono attratti dalle dinamiche del rischio e
della conseguente responsabilità della società occulta: quella, cioè, il cui nome non sia stato speso
del commercio giuridico generato dall’attività di impresa apparentemente svolta da una sola persona
fisica: in tale ipotesi, ove emerga, successivamente alla dichiarazione di fallimento
dell’imprenditore commerciale individuale, “che l’impresa è riferibile a una società di cui il fallito è
socio illimitatamente responsabile” si procede alla dichiarazione di fallimento della società occulta
ed all’estensione del fallimento stesso a carico degli altri soci illimitatamente responsabili la cui
posizione sia emersa in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento dell’imprenditore
individuale e della società occulta.
E’, altresì, da precisare, a tale riguardo che il fallimento della società occulta ha luogo
unicamente al fine di estenderne poi il fallimento ai soci occulti.
Ove l’attività di impresa venisse esercitata dall’imprenditore individuale A e successivamente
emergesse che B e C erano soci di A e quindi che tra , A, B e C esistesse un rapporto sociale, si
darà luogo al fallimento della società occulta esistente tra A,B e C quale scopo-mezzo per estendere
il fallimento di questa anche a B ed a C.
In passato la soluzione normativa testè compendiata e dettata dal nuovo testo dall’art. 147 L.F.
veniva sostenuta in dottrina, ma le resistenze al suo accoglimento erano numerose e motivate in
quanto non si voleva ammettere da taluni (es. Campobasso, vol. I) che un soggetto il cui nome non
fosse stato speso nel processo produttivo potesse essere, ciò nondimeno, esposto ai rigori della
responsabilità e del fallimento.
La giurisprudenza risalente, per parte sua, era, con carattere di unanimità, orientata a recepire la
soluzione della responsabilità e del fallimento della società occulta, al fine di provocare l’effetto
della estensione del fallimento a carico dei soci occulti.
Ora, come detto, la questione è positivamente risolta dall’art. 147 L.F. nuovo testo che al suo 5°
comma prevede espressamente la dichiarazione di fallimento della società occulta.
E’ fin troppo evidente come da quanto sopra emerga la problematica di concordare il risultato
sancito dall’art. 147, 5° comma L.F. con il canone, di portata generale, della spendita del nome, alla
stregua del quale l’imputazione soggettiva degli effetti degli atti ha luogo nei riguardi del soggetto il
cui nome sia stato speso nel loro compimento.
La disposizione contenuta nell’art. 147 L.F., 5° comma si pone in termini evidentemente antinomici
rispetto al canone generale della spendita del nome: esiste, difatti, un soggetto – e cioè la società
occulta – il cui nome non viene speso nel compimento di alcun atto e, ciò nondimeno, tale società è
esposta ai rigori della responsabilità e del fallimento che presuppongono l’imputazione degli effetti
degli atti nei suoi confronti.
E’ stato ritenuto, al fine di rimuovere l’antinomia testè denunciata, che l’attività di impresa
esercitata dalla società, e quindi anche dalla società occulta, sia altra cosa rispetto ai singoli atti ad
essa inerenti; è stato, in particolare, sostenuto che l’attività di impresa non sia un insieme di atti
giuridici soltanto, ma un di più, così che la sua natura giuridica non sarebbe quella dell’atto
giuridico – soggetto indefettibilmente al canone della spendita del nome – ma quella, invece, del
fatto giuridico e quindi di una fattispecie affrancata dai rigorosi principi che governano
l’imputazione soggettiva degli effetti degli atti.
L’analisi della essenza dell’attività di impresa – una attività economica e quindi volta a creare
nuova ricchezza – mostra, in realtà, come essa non possa esaurirsi nell’insieme degli atti, dei negozi
e dei contratti che ineriscono al suo svolgimento, ma ricomprenda, in entità rilevante e talora
soverchiante, anche attività materiali, comportamenti, condotte che sono funzionali e necessarie al
conseguimento della nuova ricchezza in cui consiste l’economicità dell’attività (si pensi ad un
impianto petrolchimico, ovvero ad una fabbrica di automobili, ove accanto agli atti ed ai negozi, ha
luogo una attività di intensa materialità il cui grumo di sintesi è, appunto, l’impresa).
La conseguenza dell’imputazione dell’impresa nei confronti di un soggetto il cui nome non sia
stato speso nel processo produttivo determina, da un punto di vista teorico, l’effetto secondo il quale
non può essere sostenuta la costitutività della spendita del nome ai fini dell’acquisto della qualità di
imprenditore e quindi che anche l’imprenditore individuale che esercita l’attività per il tramite di un
prestanome operando, quindi, in condizione di clandestinità, sia ciò nondimeno imprenditore e
quindi venga assoggettato al relativo statuto che, in materia di impresa commerciale, ha nel
fallimento e nel conseguente impianto legale che lo governa, il suo più significativo suggello.
Esistono, naturalmente, e devono essere posti in forte rilievo, delicati problemi di prova: deve,
quindi, emergere, di fronte al giudice dell’insolvenza, un limpido quadro probatorio che dimostri
come l’esercizio dell’impresa apparentemente ad opera di una sola persona fisica, sia in realtà di
pertinenza di una società, ovvero che dietro la veste di un compiacente prestanome – per lo più
nullatenente – si celi ed operi altro soggetto che sia l’effettivo gestore dell’attività di impresa.
3)- Il nuovo testo dell’art. 147 L.F. prevede un ulteriore e significativo elemento di novità
rispetto al testo precedentemente vigente, con lo statuire, al suo primo comma che “la sentenza che
dichiara il fallimento di una società appartenente a uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del
titolo V del libro V del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone
fisiche, illimitatamente responsabili”.
Il riferimento ai soci “pur se non persone fisiche” ha ad oggetto le società e particolarmente le
società di capitali che avessero acquistato una quota di partecipazione in una società con soci
illimitatamente responsabili, divenendone soci.
L’effetto della estensione del fallimento nei riguardi di una società di capitali ha un connotato di
rilevante novità rispetto al pregresso sistema del diritto azionario vigente prima della legge di
riforma (L. n. 6/2003) e della legge fallimentare del ’42.
Antecedentemente alla riforma dettata dalla L. n. 6 si reputava, difatti, con orientamento unanime
della giurisprudenza, suffragato anche da una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite alla fine
degli anni ’80, che le società di capitali non potessero divenire soci delle società di persone in
ragione della irriducibile diversità dei rispettivi ordinamenti (intuitus personae, responsabilità,
formazione dei bilanci), così che il negozio giuridico dante causa a siffatta partecipazione fosse
viziato da nullità insanabile; e tale orientamento fu mantenuto fermo in giurisprudenza nonostante
la dottrina, con accenti presso che unanimi, ne avesse rilevato la inconsistenza.
Vigendo, ora, la riforma del diritto azionario, l’art. 2361 c.civ. prevede che le società per azioni
possano acquistare la qualità di socio di società con soci a responsabilità illimitata assumendo,
quindi, siffatta posizione, pur nel rispetto di specifiche cautele, quali la deliberazione assembleare di
autorizzazione agli amministratori e l’evidenza espressa della specificità di siffatta partecipazione
nei bilanci.
Discende, pertanto, da quanto detto che la società di capitali può essere dichiarata fallita in
estensione ex art. 147 L.F. comma 1°.
Non è difficile configurarsi l’eventualità che possano insorgere problematiche ove la società di
capitali operi come socio della società personale senza il rispetto delle cautele innanzi
sinteticamente enunciate dando così vita ad un rapporto non sorretto dalle procedure previste
dall’art. 2361 c.civ.: in tale ipotesi, mentre da parte della procedura fallimentare proviene una
richiesta di tutela in quanto la società ha operato come socio, ed al pari della persona fisica potrebbe
essere assoggettata ai rigori del fallimento in estensione, può sostenersi invece, per altro verso, che
la partecipazione non sia stata acquistata per il mancato rispetto del procedimento previsto dall’art.
2361 c.civ.
In tale ipotesi è evidente il conflitto tra i creditori della società fallita che tendono a ricomprendere
nell’area della garanzia anche l’invaso patrimoniale della società di capitali attraverso l’estensione
del fallimento a carico di quest’ultima, ed i creditori e soci della società di capitali che, sulla base
del mancato rispetto della procedura prevista dall’art. 2361 c.civ., si prefiggono, invece, di
salvaguardare la società di capitali dal rischio del fallimento.
4)- Una volta delineata la problematica dell’imputazione dell’impresa, si rende opportuno
prospettare il nuovo impianto normativo relativo alla figura del piccolo imprenditore.
Come è noto il “piccolo imprenditore” è individuato dalla norma contenuta nell’art. 2083
c.civ., che prevede testualmente: “ Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli
artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”; ed è noto che i piccoli
imprenditori non sono soggetti ai rigori della procedura fallimentare (Art. 2221,c.civ. e art. 1 L.F.).
L’esonero dei piccoli imprenditori dall’applicazione della legge fallimentare rinviene la sua
più significativa giustificazione nella circostanza che le limitate dimensioni dell’attività di impresa
da essi esercitata non mobilitano un commercio giuridico di massa, nella accezione prospettata più
sopra, così che vengono meno i valori giuridici della protezione del mercato e si contraggono quelli
della par condicio creditorum.
Ora, l’art. 1 della L.F., nel ribadire la soggezione al fallimento degli imprenditori
commerciali, con esclusione dei piccoli imprenditori, individua,quale canone di qualificazione di
questi ultimi, un criterio quantitativo dimensionale parametrato all’entità dell’investimento
nell’azienda e quindi alla consistenza dello stock, ovvero all’entità dei flussi attivi e dunque dei
ricavi lordi prevedendo, nella prima ipotesi, l’investimento superiore ad € 300.000,00 e, nella
seconda, la soglia dei ricavi lordi superiore ad € 200.000,00 negli ultimi tre anni in ragione di ogni
esercizio. Sulla base di tale parametro legato all’entità dei flussi attivi, la qualità di piccolo
imprenditore si perde, e si acquista, quindi, simmetricamente la qualità di imprenditore non piccolo
quando i ricavi, come detto, superino la soglia di € 200.000 per ogni esercizio, ovvero raggiungano
la soglia di oltre 600.000 € in tre esercizi consecutivi.
I suddetti limiti quantitativi sono suscettibili di aggiornamento con Decreto del Ministro
della Giustizia.
E’, ancora, da sottolineare come il nuovo testo della L.F. innovi significativamente in
materia di società: verso è, difatti, che, vigendo il vecchio testo dell’art. 1 L.F., ove veniva
testualmente previsto che “In nessuno caso sono considerati piccoli imprenditori le società
commerciali”, le società commerciali medesime erano, in quanto tali, assoggettate al fallimento,
beninteso ove la loro attività fosse caduta in stato di insolvenza (art. 5 vecchio testo L.F. e nuovo
testo).
Oggi, vigendo il nuovo testo dell’art. 1 della L.F., le società commerciali – e dunque con
oggetto commerciale – sono pareggiate agli imprenditori individuali quanto alla loro soggezione al
fallimento.
E merita, altresì, di essere sottolineato come il tasso di capitalizzazione nominale – e cioè
l’entità del capitale sociale – sia ininfluente, risultando, per contro, determinante l’investimento
nell’azienda e quindi la allocazione delle risorse ricomprese nel capitale sociale nel processo
produttivo attraverso l’investimento nell’azienda (art. 1° L.F., 2° comma, lett.a).
Resta da stabilire quale situazione si determini nell’ipotesi in cui l’investimento venga eroso
dalla perdita e la società (o l’imprenditore individuale) non conseguano ricavi oltre la soglia
prevista dall’art. 1 L.F.
La soluzione è legata alla persistenza della qualità di imprenditore non piccolo anche quando siano
venuti a cessare i presupposti che legittimano l’acquisto di siffatta veste ai fini della L.F.: può,
difatti, affermarsi che, ove l’investimento nell’azienda sia stato eroso da perdite e sia quindi –
divenuto di valore sensibilmente minore, l’imprenditore (e quindi anche la società) abbiano perduto
la qualità di imprenditore non piccolo, quanto meno dopo l’anno della verificazione della perdita
del valore dell’investimento, in applicazione analogica del dettato dell’art. 10 della L.F..
La questione è, comunque, aperta ed al riguardo occorre attendere le valutazioni che
verranno formulate in letteratura ed in giurisprudenza.
5)-Un ulteriore profilo che merita di essere vivamente sottolineato concerne il testo
novellato dell’art. 10 L.F. che governa, come è noto, l’ipotesi di dichiarazione di fallimento
nell’anno successivo alla cessazione dell’attività di impresa e dunque della perdita della qualità di
imprenditore che della suddetta cessazione rappresenta il riverbero soggettivo.
Come è noto è tradizionalmente emerso in dottrina e giurisprudenza un animato ed
oscillante orientamento con conclusioni perplesse in ordine all’applicazione della norma alle
società: la soluzione prevalente, fino all’intervento della Corte Costituzionale, era quella di non
reputare applicabile l’art. 10 L.F. alle società commerciali reputandosi che queste ultime perdessero
la qualità di imprenditore commerciale con la loro estinzione e che l’estinzione potesse verificarsi
soltanto nell’ipotesi in cui il procedimento di liquidazione fosse stato correttamente concluso e la
cancellazione di esse dal Registro delle Imprese avesse avuto luogo a seguito della suddetta
conclusione del procedimento di liquidazione. Ove, al contrario, il suddetto procedimento non fosse
stato compiutamente concluso e fossero restati in essere rapporti giuridici patrimoniali passivi, i
creditori non soddisfatti nell’ambito del suddetto procedimento, ben avrebbero potuto provocare la
reviviscenza della società cancellata dal Registro delle Imprese determinando successivamente – e
quindi anche oltre il termine dell’anno dalla cancellazione della società dal Registro – il fallimento
della società.
Siffatta interpretazione era evidentemente correlata al convincimento risalente ed assiduo
della giurisprudenza, secondo il quale la società fosse, fin dal suo venire in essere, imprenditore e
tale restasse fino alla sua effettiva estinzione coincidente con la definizione del procedimento di
liquidazione e successiva cancellazione dal Registro delle Imprese.
Ora il nuovo testo dell’art. 10 L.F., col prevedere testualmente che “Gli imprenditori
individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal
Registro delle Imprese” prevede una sostanziale (anche se non completa) parificazione delle società
agli imprenditori individuali, determinando, a questo modo, la soggezione delle società ai rigori del
fallimento solo per l’arco di tempo di un anno dalla cancellazione della società.
Il capoverso dell’art. 10 civ., prevede, ancora che “ In caso di impresa individuale o di
cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà di dimostrare il
momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma”.
La norma, dunque, prevede che la cancellazione dal Registro delle Imprese
dell’imprenditore individuale lasci impregiudicata per i creditori la possibilità di dimostrare come
essa cancellazione non corrispondesse, però, alla effettiva cessazione dell’impresa e, quindi, che il
termine di un anno per la pronuncia del fallimento non decorresse dalla cancellazione
dell’imprenditore individuale medesimo dal Registro, ma dal momento della effettiva cessazione
dell’impresa.
Per quanto concerne, invece, l’imprenditore collettivo, la cancellazione dal Registro non
sembra ammettere una prova contraria in ordine alla circostanza che la cancellazione stessa avesse
avuto luogo a seguito dell’intervenuta cessazione dell’impresa, mentre a tale prova sono ammessi i
creditori ove la cancellazione della società fosse stata disposta d’ufficio.
La diversità di regime giuridico tra imprenditore individuale e imprenditore collettivo può,
forse, suscitare questioni di costituzionalità sulla base dell’art. 3 della Carta fondamentale. Il
creditore dell’imprenditore individuale, difatti, è ammesso a provare che la cessazione dell’impresa
non ha avuto luogo al momento della cancellazione dal Registro delle Imprese, mentre l’art. 10
della L.F. preclude, di regola, al creditore della società commerciale tale prova: per modo che, a
fronte di cancellazioni affrettate e senza il corretto svolgimento del procedimento di liquidazione
della società dal Registro, il creditore sociale, anche oltre l’anno dalla cancellazione, dovrebbe poter
essere ammesso a provare che la cessazione dell’impresa non ha avuto luogo, ma il suo esercizio è
continuato, sia pure in modo anomalo, anche successivamente alla cancellazione.
E si può, forse, concludere anche nel senso che, se i criteri giuridici di accesso al perimetro
dell’imprenditore fallibile, stabiliti dall’art. 1 del nuovo testo della L.F., sono i medesimi, medesimi
dovrebbero essere, per organicità e coerenza anche quelli relativi alla cessazione dell’impresa.
Appendice normativa
TITOLO II
Del fallimento
Capo I
Della dichiarazione di fallimento.
ART. 5.
Stato d’insolvenza.
L’imprenditore che si trova in stato d’insolvenza è dichiarato fallito.
Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore
grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.
ART. 10.
Fallimento dell’imprenditore che ha cessato
l’esercizio dell’impresa.
Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal
imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo. In cas
individuale odi cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà di dimostrare
dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma.
ART. 147
Società con soci a responsabilità illimitata
La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente a uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI de
libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente re
Il fallimento dei soci di cui al comma primo non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento
sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata, anche in caso di trasformazione, fusione o scissione,
osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati. La dichiarazione di fallimento è possibile solo se
della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata.
Il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocaz
dell’articolo 15.
Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabil
su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi.
Allo stesso modo si procede qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti
è riferibile a una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile.
Contro la sentenza del tribunale è ammesso appello a norma dell’articolo 18.
In caso di rigetto della domanda, contro il decreto del tribunale l’istante può proporre reclamo alla corte d'app
dell'articolo 22.

Nessun commento:

Posta un commento