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lunedì 21 settembre 2009

Diritto islamico


INDICE
Introduzione........................................................................................................................... 4
Le fonti del diritto islamico.................................................................................................. 11
Il diritto di famiglia .............................................................................................................. 21
La recezione del diritto musulmano: il Codice dello Statuto personale tunisino ........... 37
Dal divieto di usura alle banche islamiche ......................................................................... 57
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INTRODUZIONE
In un articolo di pochi anni fa, un autorevole studioso affermava che la difesa
dell’autonomia del diritto canonico e del diritto ecclesiastico è destinata a passare
attraverso l’introduzione nelle Facoltà di Giurisprudenza dell’insegnamento del
diritto di altre religioni, a partire dal diritto islamico.1 Pur ritenendo che esistano
anche altre strade che possano essere battute, e che vanno dalla rivendicazione del
valore culturale di queste materie alla loro ancora attuale specificità giuridica,2non c’è
dubbio alcuno che la frammentazione della società e la rivendicazione forte di
esigenze legate all’identità (anche) religiosa dei nuovi gruppi che si stabiliscono nel
nostro Paese, finiscano con il creare nuovi campi di interesse per il canonista e per
l’ecclesiasticista. Sempre di più gli operatori giuridici, le amministrazioni pubbliche,
ma direi tutta la società nel suo complesso, si trovano a doversi confrontare con
problemi nuovi che nascono proprio dalle regole che governano l’organizzazione
delle singole comunità religiose.
Non sembra affatto esagerato sostenere che per gli operatori del diritto comincia
in qualche modo a divenire non più rimandabile l’adeguata conoscenza di queste
regole; una necessità a cui rispondere proprio attraverso lo studio degli ordinamenti
delle confessioni religiose che sono oggi presenti in Italia. Il diffondersi di questa
esigenza, la richiesta di strumenti idonei a soddisfarla, lo sviluppo di una rinnovata
sensibilità verso questi temi trovano esemplare dimostrazione nella recente comparsa
di una nuova rivista giuridica, Daimon, dedicata proprio allo studio
dell’organizzazione interna delle varie confessioni religiose.
Ecco, allora, che diviene facilmente comprensibile la scelta di aprire il corso di
diritto canonico dell’università fiorentina allo studio del diritto di un’altra religione:
tale apertura vuole proprio essere una risposta tempestiva ai mutamenti in corso nella
nostra società; mutamenti a cui non possono restare indifferenti gli operatori giuridici,
di oggi e di domani. Ma questa scelta vuole anche essere un primo tentativo di
adeguamento alle modifiche introdotte dalla riforma dell’insegnamento universitario,
sfruttando da subito le possibilità che si aprono con l’articolazione modulare dei corsi
accademici.
Una volta assunta la convinzione di intraprendere questo cammino, ci è parso
abbastanza scontato individuare il punto di partenza nello studio del diritto islamico,
piuttosto che nello studio del diritto di altra confessione. A supporto di questa scelta
basterà ricordare come l’Islam non sia solamente la seconda religione mondiale per
numero di fedeli, ma rappresenti anche la seconda confessione religiosa presente nel
nostro territorio.
Queste brevi e parziali dispense sono composte dai testi di alcune lezioni tenute
nell’ambito del corso di diritto canonico e hanno come principale obiettivo quello di
fornire un punto di riferimento scritto per i tanti studenti che si cimentano nello studio
di una materia così diversa e complessa com’è il diritto islamico.
Prima di addentrarci nello studio di un diritto per l’appunto così particolare,
quale è indubbiamente il diritto islamico, può essere opportuno soffermarsi su alcune
considerazioni preliminari che possano in qualche modo fare da guida nella lettura di
queste dispense.
1) Ogni religione organizza la realtà con il richiamo della propria serie di
categorie. La prima premessa, dunque, è tutta incentrata sulla necessità di non
analizzare una struttura con le categorie proprie di un’altra struttura. Inevitabilmente
ci portiamo dietro il nostro punto di vista, ma non possiamo studiare l’Islam
rinchiudendolo nel nostro paradigma di normale/anormale-giusto/ingiusto. Alcune
affermazioni, alcuni comandi, sono comprensibili solo all’interno di un dato sistema,
che è ovviamente differente da ogni altro e che proprio nelle sue peculiarità, in quello
che a noi può sembrare più strano, fonda la propria identità.3
2) Prima di cominciare a studiare il diritto islamico dobbiamo cercare di
comprendere, sia pure per grandi linee, qual è l’oggetto del nostro studio, ovvero che
cos’è l’Islam.

L’Islam non è solo una religione, è anche una cultura, un assetto di potere, una
ideologia complessa e articolata. Ma l’Islam è anche una religione, una religione che
detta regole sia di tipo spirituale che di tipo temporale e che nel tempo ha organizzato
queste regole dando vita ad un ordinamento giuridico. Noi studiamo il diritto islamico
e solo quello, così come quando studiamo il diritto canonico non ci interessiamo di
liturgia e/o di teologia, ma inevitabilmente non ci occupiamo solo di norme, potendo
analizzarle e comprenderle solo se abbiamo chiaro il quadro in cui esse nascono e
trovano applicazione.
Dal punto di vista più strettamente giuridico l’Islam si presenta come un
ordinamento con delle caratteristiche molto particolari, per certi versi irripetibili.
Come ogni diritto confessionale è finalizzato al raggiungimento di fini ultraterreni e
quindi si deve dotare di strumenti che permettano di adattare le singole prescrizioni al
raggiungimento di quei fini; pur presentando insospettate analogie con il diritto
romano, specie nel campo dei diritti reali e del possesso, non è strutturato intorno ad
un corpo di leggi; pur avvicinandosi ai sistemi di common law non è ad esso
assimilabile, presentandosi più come il diritto dei giuristi che come il diritto dei
giudici.4
3) La terza considerazione preliminare a uno studio sull’Islam è che non esiste
un Islam, ma diversi Islam. Diversi Islam che si sono succeduti nel tempo, con
caratteristiche diverse, con scelte di fondo diverse e quindi con soluzioni diverse ai
problemi della vita pratica, ma anche Islam diversi nel territorio, perché questa
religione è presente in realtà estremamente differenziate e si trova ad interagire con
tradizioni diverse, con governi diversi e quindi assume configurazioni originali a
seconda dei luoghi.
Non si tratta di un semplice adattamento imposto dalle circostanze; da sempre
l’Islam, all’interno di una visione unitaria che si muove intorno ad alcuni principi
irrinunciabili, è caratterizzato da una estrema flessibilità, da una insospettata
dinamicità (dico insospettata perché normalmente la visione dell’Islam è quella di
una religione estremamente statica). Si tratta di caratteristiche tipiche di ogni
ordinamento religioso ma che nell’Islam sono oltremodo agevolate nella loro
esplicazione dalla mancanza di un’autorità centrale. Esistono così diverse scuole
ufficiali (e altre non ufficiali) che, ognuna a modo loro, sono legittimate a fornire una
interpretazione delle fonti dell’Islam.
4) Per meglio spiegare questo passaggio mi sembra utile fare un esempio. Come
è noto l’Islam nasce con Maometto, e la prima moglie di Maometto, Khadija, è una
figura particolarmente interessante. É una donna nobile, ricca, che si occupa del
commercio, che assume Maometto e poi lo sceglie come sposo, è la prima fedele
della nuova religione, fornisce a Maometto le disponibilità economiche, le possibilità
e la convinzione per fondare la prima comunità dei fedeli. Insomma, una donna che
ha un ruolo pubblico attivo profondamente antitetico a quella che è la visione
stereotipata e consolidata della donna islamica.5 Al di là del caso singolo, questo
esempio ci serve per comprendere come ogni cosa possa avere avuto manifestazioni
diverse nell’Islam e come la nostra visione, che poi a volte non è l’esatta visione delle
cose, sia determinata da una serie di passaggi storici non sempre legati ai fondamenti
religiosi dell’Islam. In sostanza, l’attuale configurazione dell’Islam è il risultato di
una serie di fattori (storici, politici, culturali) di cui dobbiamo tenere conto pur non
essendo direttamente attinenti al nostro studio. Per quanto possibile dobbiamo tenere
separate le due cose, ciò che impone il Corano da ciò che avviene oggi, ciò che è
diritto islamico da ciò che è il diritto di uno singolo Stato islamico.
Si tratta di un’avvertenza di grande importanza perché la distinzione cui facevo
riferimento è molto chiara nella nostra cultura, siamo abituati a considerare che le
scelte di uno Stato siano indipendenti dalle scelte degli ordinamenti confessionali, ma
nell’Islam (nel Daar al-Islam) la distinzione tra potere temporale e potere spirituale è
molto meno netta e così molti Stati si dichiarano islamici e dettano norme che si
richiamano direttamente alla shar’ia, ma evidentemente applicano la legge islamica
alla luce delle proprie esigenze e adattandola trasformano il diritto musulmano
classico che diviene il diritto di quel singolo Stato.
5) Le ragioni che giustificano uno studio del diritto islamico sono molteplici. A
prescindere dall’interesse che può derivare dall’approfondimento di un sistema
giuridico originale, non c’è dubbio che oggi l’Islam presenta un qualcosa in più, un
interesse qualificato, strettamente legato all’attualità. Uno storico americano,
Huntington, profila l’avvicinarsi di un inevitabile scontro fra civiltà, indicando nel
futuro prossimo la necessità di fare i conti con l’Islam,6la cronaca ci rimanda una
serie di problemi legati alla presenza di immigrati islamici nel nostro Paese; lo Stato
italiano si interroga sulla politica normativa da adottare nei loro confronti (ghetto?
assimilazione? integrazione?); uno studioso italiano, Branca, scrive nel sottotitolo di
un suo libro dedicato ai musulmani “Per secoli li abbiamo temuti, ora dobbiamo
conoscerli”.7
Non sono affatto sicuro (posso solo limitarmi a sperarlo) che la conoscenza sia
un antidoto sufficiente a eliminare il pregiudizio, ma certo che è sempre più difficile
per l’operatore giuridico ignorare il fenomeno Islam ed è altrettanto certo che non è
possibile elaborare soluzioni soddisfacenti senza un’adeguata conoscenza delle
caratteristiche di questa confessione religiosa.
6) Infine, come studiare il diritto islamico? Quando si studia un altro
ordinamento ci sono due possibilità: compararlo con il nostro ordinamento (ed in
questo caso dovremmo utilizzare come parametro il diritto canonico) oppure studiarlo
nella sua essenza a prescindere dal riferimento ad un altro ordinamento.
La strada della comparazione presenta enormi difficoltà legate ad una serie di
fattori,8tra cui:
a) difficoltà di selezionare cosa comparare nell’impossibilità di comparare in
generale, all’interno di uno spazio così ridotto, due sistemi talmente vasti;
b) difficoltà di selezionare chi comparare. Come si potrebbe escludere lo studio
di altri ordinamenti confessionali ove optassimo per una comparazione
settoriale finalizzata all’analisi di istituti giuridici specifici?
Ecco perché riteniamo più opportuno uno studio limitato a ricostruire i caratteri
generali del diritto islamico, o per meglio dire, stante la vastità del tema, alcuni parti
del diritto islamico.
Come già detto queste dispense sono composti da una serie di lezioni tenute
durante l’anno accademico 2000/2001 e che riguardano alcuni dei temi principali che
sono stati affrontati durante il mini-corso di diritto islamico. La prima di queste
lezioni è volta alla ricostruzione del sistema delle fonti del diritto musulmano; un
tema che ci introduce immediatamente nella specificità dell’ordinamento
confessionale e che più di altri si presta ad essere indagato facendo riferimento al
diritto canonico. Dopo questa parte generale, l’attenzione si sposta sul diritto di
famiglia islamico, nella convinzione che questo sia il settore più rilevante del diritto
islamico, sia per le sue peculiarità sia perché rappresenta la parte più irrinunciabile, e
quindi maggiormente legata alla tradizione, di tale ordinamento. Nemmeno questo
settore, però, risulta essere del tutto impermeabile all’evoluzione che la storia
determina nei singoli (perlomeno in alcuni) Stati islamici, come dimostra il contributo
successivo, dedicato ad evidenziare proprio le novità introdotte in materia dal Codice
dello Statuto personale tunisino. Infine, ho ritenuto opportuno dedicare uno spazio
apposito ad un istituto particolarmente caratterizzante il diritto islamico, quale il
divieto del prestito ad interesse, ricco peraltro di ricadute pratiche specie in un mondo
sempre più globalizzato e sempre più teso a rincorre il profitto ad ogni costo ed in
ogni luogo.
In tutti i casi si è cercato di mantenere quanto più possibile lo stile discorsivo
tipico delle lezioni, evitando esposizioni dettagliate e troppo approfondite e cercando
di fornire agli studenti degli strumenti agili e di facile lettura che potessero permettere
una comprensione generale dei problemi trattati.
Queste dispense sono il frutto di una intensa e proficua collaborazione con
alcuni studenti dei corsi precedenti e con una giovane laureata. Più specificatamente,
la parte sul diritto di famiglia è stata frutto del lavoro svolto con Anna Maria Dario e
Veronica Rovai, la parte sul codice tunisino è stata redatta in collaborazione con
Benedetta Melozzi, la parte sul divieto di usura nel Corano è stata curata con
Emiliano e Tania Maccioni. Se a tutti loro va un mio sentito ringraziamento, non
posso non ricordare che devo a Benedetta Melozzi qualcosa in più, ovvero l’idea e lo
stimolo ad occuparmi di queste tematiche.

LE FONTI DEL DIRITTO ISLAMICO
Come è facilmente comprensibile, non è possibile in poche pagine occuparsi di
tutti gli aspetti che sono in qualche modo oggetto di regolamentazione da parte del
diritto islamico. Allo stesso tempo, prima di cominciare ad analizzare gli istituti
giuridici che verranno presi in considerazione nelle prossime pagine, può essere
opportuno accennare ad alcune nozioni di carattere generale, in modo da mettere in
luce alcune delle peculiarità che caratterizzano l’Islam.
L’era islamica inizia nel 632 d.c., quando Maometto e i suoi fedeli compiono
l’egira, ovvero abbandonano la Mecca a seguito dei contrasti che erano sorti con gli
abitanti della città. Quindi, il primo avvertimento che va rivolto a chi si avvicina al
mondo musulmano è quello di ricordare che esso segue una datazione diversa da
quella utilizzata nel mondo occidentale. Il riferimento a Maometto ci permette poi di
ricordare come egli altri non sia che un profeta, uno dei tanti profeti che sono apparsi
sulla terra nel corso della storia. Su questo elemento si basa la vicinanza, molto
sentita nelle istituzioni musulmane e molto chiara nella loro storia, nei confronti delle
altre confessioni monoteistiche fondate sulla parola dei profeti che l’Islam riconosce
come tali. Ma, Maometto è anche l’ultimo dei profeti e da qui discenderebbe la
superiorità dei musulmani, giacché solo i fedeli di questa religione sarebbero in
condizione di poter conoscere per intero la Rivelazione.
Come abbiamo accennato, l’Islam riconosce piena dignità alla Gente del Libro,
cioè ai cristiani e agli ebrei, ritenendo che l’origine sia comune a tutte e tre queste
confessioni. Sebbene questo riconoscimento non implichi una uguaglianza tra i
soggetti, essendo solo i musulmani in grado di vivere rettamente in quanto unici
destinatari della Rivelazione completa, esso produce comunque dei rilevanti effetti
giuridici. Infatti, cristiani ed ebrei godono della dhimma, ovvero di un patto di
protezione illimitato. In sostanza, gli appartenenti a queste confessioni non sono
considerati miscredenti, la loro libertà religiosa è pienamente riconosciuta, tant’è vero
che anche i gruppi fondamentalisti di cui tanto oggi si parla rivolgono la loro azione,
spesso violenta, non contro i fedeli di queste confessioni quanto piuttosto contro i
musulmani che tradiscono l’Islam. Quando la lotta è rivolta contro ebrei o cristiani, la
motivazione originaria non è mai religiosa; la religione è solo utilizzata,
strumentalizzata, piegata al fine del perseguimento di interessi di altra natura.
Dopo la morte di Maometto si succedono quattro califfi (detti ben guidati) e
durante questo periodo si procede a consolidare la parola del Profeta. É questa l’età
dell’oro dell’Islam, cioè il periodo in cui si sarebbe realizzata una perfetta società
islamica. Ciò, a ben vedere, segna profondamente il modo di pensare e di agire dei
musulmani, in quanto se il modello ideale di società si è concretizzato sulla terra, a
differenza di quanto ad esempio ritengono i cristiani, è evidente che quell’esperienza
storica rappresenta il punto di riferimento, il traguardo verso cui tendere: è a quel
modello che bisogna tornare. Ecco perché l’Islam viene rappresentata da più parti
come una religione naturalmente conservatrice o, per meglio dire, inevitabilmente
rivolta al passato e non al futuro come invece accade ad altre religioni.
Tra i comandi contenuti nella sharia (termine che può essere tradotto come “la
retta via” e che indica la legge rivelata da Dio) dobbiamo distinguere quelli che
riguardano il rapporto tra uomo e Dio, cioè i precetti più prettamente religiosi, da
quelli che riguardano le relazioni tra esseri umani. I primi sono detti ibadat, i secondi
mu’amalat.
Le ibadat sono rappresentate essenzialmente9dai cinque Pilastri (arkân al-dîn),
cioè i cinque atti di culto10 fondamentali della religiosità musulmana11. Questi atti
trovano la loro fonte diretta nel Corano che li istituisce e ne disciplina in maniera
generale l’esecuzione.
Il primo pilastro è costituito dalla Professione di fede islamica (shahâda) con la
quale un individuo rende testimonianza della unicità del Creatore e della verità del
profeta Maometto.12 Da questa dichiarazione discendono in capo al fedele
musulmano non solo degli specifici obblighi nei confronti di Dio, ma anche una
nuova situazione sociale: egli diviene membro effettivo della comunità musulmana e
inserito nella netta suddivisione fra ciò e chi appartiene all’Islam e ciò e chi non vi
appartiene. Sul piano pratico, la coerenza a questa testimonianza comporta l’obbligo
per il fedele di conformare la sua vita alle regole di condotta stabilite dal Corano e
dalla Sunna. La testimonianza è un atto personale e volontario e nessuno ne può
mettere in discussione la sincerità se non tramite una solenne dichiarazione di abiura.
L’adorazione quotidiana (salât) rappresenta il secondo atto di culto
fondamentale dell’Islam.13Essa viene menzionata dal Corano in numerosi versetti; già
all’interno della seconda sura è stabilito: “Coloro che credono nell’invisibile,
assolvono all’orazione e donano ciò di cui noi gli abbiamo provvisti”.14
Tale adorazione rituale presenta comunque delle peculiarità rispetto alla
preghiera del mondo cristiano in quanto soggetta a precise modalità di esecuzione. In
primo luogo, essa deve essere eseguita dal fedele in momenti determinati e per ben
cinque volte al giorno. In secondo luogo, la sua valida esecuzione richiede come
condizioni la purezza rituale,15il vestiario appropriato, l’orientamento in direzione
della Mecca e l’idoneità del luogo. L’unica preghiera che si svolge in maniera
comunitaria è quella del venerdì alle ore 12:00 e su questo elemento si fondano le
recenti richieste di organizzazioni islamiche di considerare il venerdì come giorno di
riposo.
L’imposta coranica (zakât) costituisce il terzo pilastro dell’Islam. La sharî’a
impone ad ogni musulmano con capacità contributiva di pagare un' imposta a titolo di
assistenza pubblica.16 L’elemosina obbligatoria rappresenta la manifestazione
religiosa del rapporto tra il credente e i suoi simili che si esprime attraverso la
condivisione dei beni. Anche l’elemosina, come la preghiera rituale, viene
menzionata dal Corano in numerosi versetti. Uno dei più significativi è quello che
elenca le otto categorie di beneficiari della decima.17 Accanto all’elemosina
obbligatoria, disciplinata dettagliatamente dalla legge sciaraitica, esiste una forma di
carità privata, assolutamente libera, che il Testo sacro giudica con maggior favore.18
Il quarto pilastro, ossia il digiuno nel mese di Ramadân19(sawm Ramadân),
rappresenta probabilmente l’atto di culto più osservato nel mondo islamico. Esso è
disciplinato nelle sue linee essenziali dal Corano che in un versetto recita:
È il mese di Ramadan, nel quale venne fatto scendere il Corano, codice di vita per
gli uomini, esposizione chiara delle direttive, criterio per distinguere il bene dal
male. Chi di voi veda (l’inizio) del mese, digiuni.20
Hanno l’obbligo di digiunare tutti i musulmani puberi, sani di mente e in condizioni
fisiche che permettano di farlo senza danni per la loro integrità fisica. Il digiuno
consiste nel non assumere né cibo né bevanda, nel non fumare, nel non avere rapporti
coniugali, nel non ingerire per via orale (né introdurre nel corpo per altra via) alcuna
sostanza o medicinale. Esso comincia circa un quarto d’ora prima dell’inizio del
tempo dell’adorazione rituale dell’alba e si conclude al calar del sole.
Il quinto pilastro è costituito dal Pellegrinaggio (hajj). Ogni musulmano che ne
abbia le possibilità è tenuto una volta nella vita a recarsi ai luoghi santi dell’Islam. Il
pellegrinaggio che assolve all’obbligo rituale è quello compiuto in un determinato
periodo dell’anno e che prevede l’osservanza di un insieme di riti.21 Il Corano
menziona anche un altro tipo di pellegrinaggio, più breve, denominato Visita
(umrah), che può essere compiuto in qualsiasi periodo dell’anno, ma che se svolto nel
mese di Ramadân, ha la stessa valenza del lungo pellegrinaggio.
Tra le altre caratteristiche peculiari dell’Islam vanno segnalate la mancanza di
un’autorità centrale e l’assenza di soggetti che svolgano il ruolo che normalmente
siamo abituati ad attribuire al clero. Quanto al primo punto, esso determina come
logica conseguenza che l’Islam non si è dotato di un soggetto che abbia il potere di
fornire un’interpretazione assoluta della verità; ciò evidentemente favorisce la
possibilità di una pluralità di posizioni dottrinali e teologiche che si confrontino con
pari dignità. Per quel che riguarda invece, la scelta di questa confessione religiosa di
strutturarsi prescindendo dalla creazione di un ceto preposto a svolgere stabilmente
particolari attività spirituali e a trasmettere il messaggio religioso, va notato come
l’assenza di figure immediatamente riconducibili nell’immaginario collettivo alla
qualifica di ministro di culto non toglie che operino nel mondo musulmano tutta una
serie di soggetti che si occupano di assicurare il compimento di alcune delicate
funzioni, come guidare la preghiera (imam) o fornire precetti che regolino la vita
della comunità dei credenti (ulama). Semmai, la possibilità di far riferimento alla
nozione tradizionale di ministro di culto rinviando a queste figure è resa
particolarmente difficoltosa dalla mancanza di un qualsiasi organismo ecclesiale che
possa attribuire, negare o riconoscere lo status di dirigente religioso, carica sancita e
legittimata unicamente dalla comunità dei credenti22e come tale, peraltro, soggetta in
ipotesi a mutamenti continui quanto improvvisi.
Sempre per quanto riguarda il, tema dei ministri di culto, è opportuno ricordare
come la mancanza di un corpo separato di soggetti che dedichino tutta la loro vita al
servizio della comunità religiosa, venendo di conseguenza ad assumere un ruolo
stabile ed ufficiale all’interno di questa, possa in qualche modo derivare anche dal
consolidato atteggiamento di chiaro sfavore che l’Islam ha sempre mantenuto nei
riguardi della pratica del celibato. Una impostazione maturata sulla scia di una
visione profondamente diversa da quella cristiana del matrimonio e che porta a
configurare l’unione tra uomo e donna non come un male minore quanto come lo
stato naturale, direi perfetto, dell’uomo. Non si dimentichi a tal proposito che
Maometto, la cui vita rappresenta un esempio da seguire per tutti i musulmani, si è
sposato più volte.
Passando alle vere e proprie fonti del diritto islamico23è bene premettere un
dato: la rinascita dell’interesse verso lo studio di questo diritto è certo determinato dal
fenomeno dei flussi migratori ma anche, forse soprattutto, dalla rinascita stessa di
questo diritto, ovvero dalla crisi dei sistemi nazionali che si erano aperti alla
occidentalizzazione e che oggi ripropongono, in tutto o in parte, il diritto musulmano
classico al proprio interno. Si può condividere il giudizio di un autorevole studioso
dell’islam, secondo cui “il diritto musulmano è diventato oggi uno dei luoghi del
conflitto tra tradizione e modernità all’interno del mondo islamico”.24
Come detto, la legge religiosa in generale viene detta sharia. La sharia riparte
in cinque categorie le azioni umane: atti obbligatori, consigliati, liberi, sconsigliati,
proibiti. Questa classificazione si presta immediatamente ad una prima riflessione: il
diritto islamico prevede la possibilità che vengano efficacemente posti in essere degli
atti che siano oggetto di un giudizio negativo, la loro riprovazione non ne inficia la
legittimità. Esempio classico di questa categoria di atti, come vedremo meglio in
seguito, è il ripudio.
Così come avviene anche in altri ordinamenti confessionali, l’applicazione della
legge religiosa si basa sulla irrilevanza del principio della territorialità, mentre la
possibilità di una pluralità di interpretazioni deve sempre tenere conto di quel limite
insormontabile che è costituito dalla non modificabilità della norma rivelata. Accanto
alla sharia c’è il fiqh, ovvero la conoscenza della legge religiosa, quella conoscenza
che permette una lettura appropriata ed una corretta interpretazione della volontà
divina.

Quelle che noi chiameremmo fonti di produzione e che i musulmani chiamano
invece radici del diritto sono quattro:
1) Il Corano
Come è noto il Corano è il libro che contiene l’insieme delle rivelazioni che il
Profeta, Maometto, afferma di aver ricevuto da Dio. I capitoli, in arabo sura, sono
114 e hanno una lunghezza estremamente variabile. Altrettanto diversificate sono le
materie che vengono prese in considerazione, si va dal diritto di famiglia all’usura, da
brevi cenni sulla compravendita e sul prestito alla previsione di disposizioni che
regolamentano il diritto di guerra o la situazione giuridica degli Ebrei e dei Cristiani.
Si incontrano talvolta norme di carattere contraddittorio, una antinomia questa che il
Corano stesso giustifica, nel momento in cui stabilisce la congruità di una rivelazione
progressiva prevedendo che Dio possa abrogare delle sue precedenti disposizioni
sostituendole con delle nuove; da qui l’esigenza di conoscere quale sia il versetto
cronologicamente anteriore che viene abrogato e quale quello posteriore, esigenza
spesso di difficile soddisfazione dato che la collocazione dei versetti (prima o dopo)
nel libro non è ritenuto un criterio sufficiente a dirimere l’eventuale contrasto.
Le disposizione coraniche sono di diverso tipo e solo il 3% dei versetti presenta
un vero e proprio contenuto giuridico, inoltre molti di queste norme disciplinano
settori specifici (specie il diritto di famiglia e le successioni) o sono accompagnate da
prescrizioni di carattere religioso. In sostanza, questi versetti possono essere
considerati il cuore del diritto islamico, essendo rivelati e dunque immodificabili, ma
non coprono nemmeno una minima parte di tutte le relazioni umane; per molti fatti la
volontà di Dio non si può evincere dal libro sacro. Ecco perché i musulmani se anche
partono nella costruzione del loro sistema giuridico dal Corano, hanno poi come
principale esigenza quella di andare oltre il Corano.
2) La sunna
Per integrare i comandi del Corano il principale punto di riferimento è la
tradizione, intesa come tutto quello che riguarda la vita del profeta e dei suoi primi
compagni. Il suo comportamento, i suoi assensi taciti, le sue azioni, i suoi silenzi, le
sue parole compongono la sunna e diventano norma, giacché la sua vita, pur essendo
la vita di uomo, è considerata ispirata dalla divinità. Tutto ciò è ricostruito attraverso i
racconti dei comportamenti di Maometto, i cosiddetti hadith, trasmessi prima
oralmente e poi trascritti. Le raccolte (sei) di hadith vennero fissate definitivamente
solo tra l’870 e il 915, ovviamente questo procedimento si espose a molte
strumentalizzazioni cosicché il problema più rilevante fu quello di accertare
l’autenticità dei racconti. In questo senso l’elemento decisivo veniva individuato nella
reputazione dei trasmettitori del racconto. L’estensione della sunna, cioè la possibilità
di riconoscere valore non solo alla tradizione di Maometto ma anche a quella di altri
soggetti, come gli imam, coloro che guidano la preghiera, è alla base della divisione
dei musulmani tra sunniti e sciiti.
3) Igma
Accanto alle due fonti scritte di cui ci siamo già occupati, il diritto islamico
pone due fonti orali. Con il termine igma si intende indicare il consenso della
comunità in merito a questioni religiose. L’accordo dei fedeli, o meglio dei dottori in
quanto rappresentanti qualificati della comunità, produce diritto e questo sulla base di
un detto attribuito a Maometto secondo cui “la mia comunità non si troverà mai
d’accordo sopra un errore”.
Recentemente si è cercato si estendere il significato di igma in modo da poter
attribuire la funzione creatrice del diritto all’opinione pubblica; un’operazione che
avrebbe aperto le porte ad una evoluzione in senso moderno del diritto islamico
facendo giocare un ruolo decisivo alle nuove esigenze delle singole comunità, ma il
tentativo non ha avuto successo per l’opposizione della dottrina tradizionalista. Va
ricordato, infine, che gli sciiti non riconoscono valore giuridico a questo strumento.
4) Qiyas
Il qiyas è senza dubbio la fonte del diritto maggiormente controversa e
problematica. Con questo termine si indica la possibilità di creare una regola
giuridica attraverso il ricorso al procedimento analogico, per cui da un caso
disciplinato espressamente si trae il principio che serve a regolamentare un caso
simile ma non previsto. L’ammissibilità di questo procedimento, i suoi limiti,
dividono profondamente le varie scuole giuridiche in cui si articola il mondo
musulmano.

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